Francesco BRANCIAMORE “Improvisation of the four seasons” Caligola 2033-2 53’57’’. Branciamore è batterista e percussionista siciliano dalla vasta esperienza nel campo dell’improvvisazione radicale. Dal 1989 è co-leader del December Thirty Jazz Trio (con Giorgio Occhipinti e Giuseppe Guarrella), fa parte dell’Hereo Tentetto dello stesso Occhipinti e tra le sue numerose esperienze vanno ricordate almeno il progetto elettronico-percussivo “Meloritmoarmonico” (1994) e “Trade d’Union” con Enrico Rava, Paul Rutherford e Michel Godard, nell’ambito del IV Festival Ibleo del Jazz (1996). Quest’ultimo progetto è alla base della più recente incisione di Branciamore che riprende la tematica ed è stato registrato dal vivo al “Siena Jazz Festival” un anno dopo, con Guido Mazzon al posto di Rava. I quattro ampli brani (dagli 8’05’’ di “Summer” ai 23’11’’ di “Autumn”) rimandano alle quattro stagioni in senso non mimetico; hanno alla base composizioni (o meglio schemi compositivi) di Francesco Branciamore che da sempre ha saputo coniugare la capacità improvvisativa con un rigoroso senso della forma. Il riferimento al ciclo naturale è al tempo stesso ancestrale ed immaginario, mentre palpabili ed inediti sono lo spettro sonoro, il gioco dei timbri, l’intreccio delle vibrazioni costruiti dal quartetto (peraltro scomponibile e scomposto al suo interno in varie occasioni). Tromba, trombone e tuba (tutti ottoni) e batteria (dove ha un certo spazio l’uso del rullante, ad esempio nel IV movimento) rimandano all’ossatura base di una fanfara, di una banda privata delle ance, arcaica, evocano sia gli ottoni di paese che le marching-band di New Orleans. D’altro canto i musicisti coinvolti (il francesed Godard, l’inglese Rutherford, l’italiano Mazzon, musicista internazionale per vocazione che ebbe il provilegio di suonare in un gruppo guidato da Cecil Taylor) hanno svolto e svolgono un ruolo importante sul fronte dell’improvvisazione radicale e del jazz d’avanguardia; Branciamore, dal canto suo è interno a questo orizzonte e lo travalica, dati i suoi interessi per l’elettronica, i molti lavori per il teatro e per il cinema tra cui le musiche per il film “Garofano rosso”, tratto da un romanzo di Elio Vittorini. Ne scaturisce una musica viva ed imprevedibile, che suona familiare, come depositata in una memoria remota, eppur innovativa, frutto di una magnifica interazione tra solisti e di un solido impianto compositivo.
Paolo BOTTI Quintet “Leggende metropolitane” Caligola 2035-2 56’44’’. Il solista di viola e compositore Paolo Botti è uno di quei nomi da tenere sotto osservazione nel jazz italiano. Presente in vari organici della frangia milanese più viva e sperimentale, il musicista ha costituito due anni fa un quintetto che arriva in studio d’incisione con una ben delineata filosofia sonora ed un repertorio originale. Del gruppo fanno parte il batterista Filippo Monico (esponente del nuovo jazz fin dagli anni Settanta, spesso a fianco di Gaetano Liguori), due giovani in via di affermazione come il sopranista Alessandro Bosetti (attivissimo in area Takla Makan) ed il contrabbassista Tito Mangialajo Rantzer, più la giovane trombonista Marina Ciccarelli. “Leggende metropolitane” ha una struttura unitaria: sei brani su otto - tutti composti da Botti - costituiscono una sorta di suite attorno all’idea di grande città, luogo nodale e nervo scoperto di tutte le contraddizioni dell’assetto sociale odierno; due dei pezzi inseriti nella sequenza (III e IV titolo) hanno, invece, altri riferimenti. “Lenor”, dall’andamento pensoso e dal lento incedere, è dedicato alla rivoluzionaria francese Eleonora de Fonseca Pimentel, che rimase vittima della sua passione ideale in una Napoli (cfr.) settecentesca e reazionaria. “A Mostar”, martoriata città balcanica, “è nato dopo una visita a quella città - ha scritto Paolo Botti - ed al suo ponte caduto da cui ragazzi e bambini si tuffavano nel fiume con una gioia ed una vitalità che contrastava con le distruzioni della guerra”. Da “Isola pedonale” a “Tolleranza zero” il quintetto dà corpo e spessore alla metropoli nei suoi aspetti descrittivi, sociali, legati all’alienazione; non si tratta, però, di un lavoro di tipo descrittivo-mimetico quanto di una libera rielaborazione che permette, come ha scritto il brillante leader “di far converegere le tante ‘anime’ che mi appartengono: il jazz, l’improvvisazione radicale, il suono colto del mio strumento, l’amore per la musica di tradizione orale ed altro ancora”. L’operazione riesce in pieno sia dal versante arstico che emotivo e politico. (l.o.)
Keith JARRETT - "Inside out" - ECM 1780 - 78'08" I tanti appassionati di Keith Jarrett saranno rimasti stupiti nello scorrere i titoli di questo nuovo - per altro splendido - disco del pianista di Allentown registrato dal vivo a Londra nel luglio del 2000 : degli standard anni '30 e '40 che avevano costituito il repertorio delle precedenti fatiche discografiche neppure l'ombra (eccezion fatta per "When I fall in love " di Edward Heyman e Victor Young); al loro posto una serie di original firmati dallo stesso Jarrett. E lo stupore aumenta quando dalla lettura si passa all'ascolto del CD: delle atmosfere dei precedenti album resta solo un ricordo ché adesso la prassi esecutiva , e quindi l'ispirazione, appaiono fondamentalmente diverse. E' la svolta annunciata da Jarrett che , evidentemente stanco di esplorare terreni all'interno di forme date, ha deciso di avventurarsi su strade inesplorate lasciandosi piena libertà di inventare sul momento: è ciò che egli stesso definisce, con felice espressione" free playing". Intendiamoci: questo tipo di procedimento non è certo estraneo all'arte di Jarrett solo che fino ad oggi lo aveva espressamente riservato alle sortite per piano - solo. In questo"Inside out" è invece tutto il trio, con Gary Peacock e Jack DeJohnette , ad esserne coinvolto, e l'operazione riesce possibile solo perché i tre, in tanti anni di comune militanza, hanno affinato un interplay che consente loro di capirsi alla perfezione qualunque cosa facciano. Partendo da queste premesse, il risultato non poteva che essere straordinario: oltre un'ora e un quarto di musica che cattura l'ascoltatore nell'ambito di una dimensione improvvisativa in cui brilla cristallina l'arte di tutti e tre i musicisti, senza dubbio tra i migliori che calchino attualmente le scene del jazz. Jarrett in particolare sembra non accusare né il trascorrere del tempo né i vari acciacchi che lo hanno condizionato nel corso di questi ultimi anni...anzi, la possibilità che si è dato di esprimersi al di fuori di qualsivoglia schema sembra avergli ridato giovinezza e voglia di rischiare. Di qui lo splendido fraseggio del brano che da il titolo all'intero album , o il senso del blues la cui essenza, spiega Jarrett pervade tutto l'album in quanto "il blues è così pervasivo e vero. Talvolta noi viviamo nel blues anche quando siamo liberi dal blues". Capito? Gerlando Gatto
Charles LLOYD - "Hyperion with Higgins" - ECM 1784 - 70'24" Ebbene sì, lo confesso: quando si tratta di Charles Lloyd le mie capacità critiche si appannano, sono prevenuto...ma questa volta in senso positivo. Ricordo di aver scoperto questo sassofonista nel lontano 1969 quando un caro amico mi regalò "Forest flower", un disco dell'Atlantic registrato dal vivo al Festival di Monterey il 18 settembre del 1966; in quell'occasione accanto al leader suonavano , guarda caso, Keith Jarrett, Cecil McBee e Jack DeJohnette, vale a dire tre musicisti che di lì a poco avrebbero raggiunto una fama ed un apprezzamento a livello internazionali. Quell'album mi colpì talmente che è rimasto nel corso degli anni uno dei miei favoriti in assoluto e da allora ho sempre seguito con la massima attenzione l'attività di Lloyd. Ebbene devo dire che questo " Hyperion with Higgins " , registrato a Los Angeles nel dicembre del 1999 , mi restituisce il Lloyd dei tempi migliori e per più di un motivo. Innanzitutto la scelta dei compagni d'avventura; in secondo luogo il repertorio scritto interamente dal leader; infine lo stato di grazie in cui si trovano tutti i musicisti. Tenendo fede a quella caratteristica che lo ha visto nel corso degli anni fare affidamento sempre su musicisti di sicuro spessore (alcuni dei quali da lui letteralmente scoperti e lanciati, come Michel Petrucciani) questa volta il sassofonista ha chiamato accanto a sé il chitarrista John Abercrombie, il bassista Larry Grenadier , il pianista Brad Mehldau e soprattutto il celebre batterista Billy Higgins che sarebbe morto qualche tempo dopo l'incisione dell'album (il 3 marzo di quest'anno) e alla cui memoria è dedicato l'intero CD. La miscela è risultata davvero esaltante grazie alla perfetta interazione dei cinque che hanno dato vita ad una musica intelligente, raffinata se volete ricercata senza per questo essere leziosa o peggio ancora inutile. Ogni nota, ogni frase, ogni sequenza ha una sua precisa logica con Lloyd a dirigere il tutto con un fraseggio ed una sonorità che sembrano non conoscere l'onta del tempo; magnifico anche l'apporto di Higgins e di Mehldau che si produce in tanti stupendi assolo tra cui vi segnalo in particolare l'introduzione a "Dancing waters, big sur to Bahia". Gerlando Gatto
Sarah Jane MORRIS - "Fallen Angel" - Irma Records - 54'13" Sulla scena oramai da circa venti anni, Sarah Jane Morris è un'artista che non delude mai sia nei concerti sia nei dischi. Ne abbiamo avuto la doppia riprova in questi mesi ascoltandola dapprima al Festival di Villa Celimontana (cfr recensione del concerto nella sezione festival) ed ora in questo nuovo album, atteso già da molto tempo vista che la sua ultima fatica discografica risaliva a qualche anno fa. Per questa sua nuova impresa la Morris ha chiamato accanto a sé uno dei chitarristi più in luce delle nuove generazioni , quel Marc Ribot che si è fatto valere accanto a musicisti di assoluto valore come John Zorn e Tom Waits. Tra gli altri protagonisti dell'album da segnalare ancora David Coulter già nella band di Roger Eno e nel gruppo inglese dei Pogues. Partendo da queste premesse il risultato non poteva che essere eccellente. La Morris, come lei stessa ama ricordare, è stata lasciata completamente libera di esprimere tutte le proprie potenzialità sciorinando , quindi , il meglio di una vocalità sempre in bilico tra una voglia di sperimentalismo ed un soffuso lirismo. Il tutto senza mai perdere quell'unità stilistica che fa della Morris un'interprete unica nel suo genere che in quest'occasione sembra comunque aver cercato e trovato una dimensione diversa dal passato. E' in quest'ottica che va inquadrata la scelta "sonora" quanto mai originale effettuata dalla cantante per la fattura dell' album: dall'ukulele al mandolino, dagli antichi cori inglesi ai più moderni strumenti elettronici...con questa straordinaria voce che visita con incredibile duttilità ogni registro , prendendo rischi inauditi ove si consideri, come confessa con una punta di orgoglio la stessa Morris, che tutte le tracce vocali sono state registrate in una volta sola e al primo tentativo. Insomma un disco da ascoltare con attenzione. G. G.
Dom Um ROMAO - "Lake of perseverance" - Irma Records CD2LP - 54'20" Brasiliano, ultra settantenne, percussionista tra i più rappresentativi della scena musicale negli ultimi decenni, Dom Um Romao è uno di quei musicisti che davvero amano suonare. E per lui, evidentemente, la musica rappresenta non solo piacere ma anche ansia di mettersi alla prova, di porsi in discussione per affrontare nuovi contesti e sonorità diverse. Così nell'arco della sua lunga carriera lo ritroviamo ora accanto a Cannonball Adderley, ora con Frank Sinatra, ora con Antonio Carlos Jobim e Astrud Gilberto. Poi, a metà degli anni '70 eccolo con i "Weather Report" di Joe Zawinul...e poi ancora negli anni '80 con Lauryn Hill. In quest'album , che segna anche l'inizio della collaborazione tra la Irma Records e l'etichetta brasiliana JSR, Dom Um Romao si misura con un repertorio tutto sommato più "tradizionale" nel senso che si tratta per lo più di brani scritti da compositori brasiliani , con qualche perla tratta dalla letteratura jazzistica come "Blue Bossa" di Kenny Dorham e il sempre splendido "Naima" di John Coltrane. Però, accanto a brani oramai classici come "Mas que nada" di Jorge Ben in una riuscita versione per sola voce (quella di Ithamara Koorax) e percussioni e "Afro Blue" di Mongo Santamaria , possiamo ascoltare pezzi nuovi tra cui "Bit Box" scritta da Eumir Deodato e "Sambao" dello stesso Romao dedicato a Walter Wanderley. Insomma un disco che riporta in primo piano un grandissimo percussionista, sempre in grado di suscitare emozioni nell'ascoltatore, non a caso classificato nell'annuale referendum 2000 del magazine americano Down Beat al secondo posto tra i percussionisti e al settimo tra i batteristi. G. G.
HELENA - "Azul" Universal 013 870-2 - 40'32" Davvero un bel disco questo "Azul" e per più di un motivo. Innanzitutto la qualità degli interpreti. Helena è una vocalist di razza che cresciuta a Parigi ha sviluppato uno stile del tutto personale in cui costanti riferimenti al più classico del lessico jazz coesistono con frequenti richiami a musiche altre. Accanto a lei figurano, inoltre, artisti di grosso spessore a completare un cast di assoluta eccellenza: Philippe Katerine alla chitarra, Benoît Delbecq alle tastiere, Steve Arguelles alla batteria e Christophe Minck al basso. In secondo luogo l' originalità del progetto. L' idea di Helena era quella di fondere assieme il suo essere francese, le sue ottime conoscenze della lingua portoghese, il ricorrente sogno della musica brasiliana, il gusto dell' improvvisazione e quindi gli inevitabili accenti jazzistici determinati dalla non trascurabile presenza dei musicisti sopra menzionati. Il risultato? Ascoltando il disco si coglie soprattutto il senso di un' indiscussa spontaneità ed eleganza interpretativa nonostante l'album, nella sua intierezza, appaia meditato, ben studiato e costruito . Merito indubbio di Helena ma anche di Katerine che ha scritto tutte le composizioni presenti nel CD. In effetti, al di là delle melodie, dei ritmi, delle cadenze il gruppo sembra riuscire a catturare il vero spirito della musica e a trascinarlo in una dimensione nuova, onirica, in cui i concetti di spazio e di tempo quasi si annullano per lasciare il posto ad una dolce, soave percezione delle possibilite incantatorie della musica In questo senso si ascolti con attenzione cosa è capace di costruire la chitarra di Philipe Katerine, quale straordinario tappeto di note riesce a mettere a disposizione di Helena che, a sua volta, non si fa pregare per sfruttare al massimo tanta messe di ispirazione. E, partendo da queste premesse, è davvero difficile evidenziare qualche brano sugli altri anche se, personalmente, abbiamo particolarmente apprezzato le interpretazioni di “Baby butterfly” e “ Ceù azulou”. G.G.
McCoy TYNER - "Plays John Coltrane" Impulse 589 183-2 - 66'28 Raramente un titolo di un CD può risultare cosi esplicativo: McCoy Tyner che suona la musica di John Coltrane non può che richiamarci alla mente quegli splendidi anni ‘60 in cui il quartetto di Coltrane , per l' appunto con Tyner al piano, rappresentava una delle più belle realtà della musica afro-americana. In effetti fu proprio accanto al sassofonista che McCoy diventò un grande del jazz e c'era dunque il fondato pericolo che l'ombra del maestro avesse continuato ad incombere sul pur bravo allievo. Pericolo che in realtà è già stato scongiurato da diversi anni anche quando, ed è proprio questo il caso, Tyner si profonde in un omaggio proprio al suo ex leader. Ho avuto la fortuna di conoscere personalmente McCoy Tyner e di parlare con lui diverse volte e l' ho sempre visto come un uomo da un canto estremamente gentile e disponibile, proprio per questo pronto a riconoscere i meriti degli altri, Coltrane in testa, ma allo stesso tempo ben conscio dei proprio mezzi espressivi e quindi consapevole di ciò che egli stesso rappresenta oramai sulle scene jazzistiche. Di qui la capacità di affrontare un repertorio fatalmente legato a qualcun altro senza alcun timore reverenziale e soprattutto riuscendo ad apporvi la firma della propria originalità della propria arte. Così brani celebri e celebrati come "Naima", "Crescent" e "India" ci vengono proposti in una veste che pur nulla tralasciando dello spirito originario, risente in maniera decisiva della mano di McCoy Tyner che evidenzia ancora una volta la sua statura di grande della tastiera. Ovviamente un rilievo particolare lo meritano anche i suoi compagni d' avventura, George Mraz al contrabbasso e Al Foster alla batteria, senza il cui prezioso apporto la musica è proprio il caso di dirlo sarebbe stata diversa! G. G.
Roberto DEMO, “La porta”, Abeat AB JZ 005, 59’33’’. La nostra è un’epoca “postmoderna”, dov’è difficile creare qualcosa di originale senza aver fatto i conti ed essersi confrontati con gli artisti del passato, magari recente o recentissimo come nel caso del jazz. In questa accezione, forse tutte le epoche sono state “post” ma l’attuale si ha l’idea o la presunzione di conoscerla meglio. Roberto Demo ha, con coraggio e determinazione, cercato una sua via nella vocalità jazzistica seguendo tre filoni: la rilettura di brani di repertorio ((Duke Ellington, Thelonious Monk, Sonny Rollins, Miles Davis più qualche standard); l’esecuzione di pezzi originali in una chiave strumentale (come la suggestiva “Danza eolia” firmata dal pianista Palmino Pia); la proposta di brani con testi in italiano, tra gli altri quello che dà il titolo all’intero album (“La porta”). I tre filoni - che spesso si mischiano nella prassi esecutiva - mettono in luce le radici e le prospettive del vocalist: la base, solida e trasparente, è quella del canto scat (“It Don’t Mean A Thing”) con riferimenti a Bobby McFerrin, cui si aggiungono le maestrie del vocalese (mediante la creazione di versi nuovi che ricalcano assoli o temi, si ascolti in proposito “’Round Midnight”). C’è, infine, la parte più nuova della sua produzione, quella che “gioca” con testi in italiano, cuciti attorno a melodie ora melanconiche ora ironiche, spesso realizzati con il semplice supporto del pianoforte (un apporto fondamentale all’album è dato dai sassofoni di Emanuele Cisi). Demo in questa suo terreno di ricerca non è solo; c’è, ad esempio, Sergio Cammariere caratterizza i propri brani in modo jazzistico-surrealistico e, in termini più generali, il jazz sembra ispirare non solo vocalist in senso canonico quanto cantanti che hanno la musica afroamericana nel loro DNA ma se ne servonono per andare oltre. Da un lato, quindi, l’operazione è elegantemente postmoderna; dall’altro Roberto Demo prova a sondare nuovi terreni espressivi, con risultati incoraggianti. Del resto c’è un sostanzioso filone di canto italico con connotati jazzistici, filone non dimenticato dato il rinnovato successo in tempi recentissimi dell’ultrasettantenne Nicola Arigliano. (Luigi Onori)
Antonio ZAMBRINI, “Quartetto”, Abeat AB JZ 006, 52’07’’. Profondità, semplicità. L’ascolto del terzo album del pianista, compositore e arrangiatore Zambrini lascia queste sensazioni. E’ una musica che non ambisce a stupire, a percuotere, non ha picchi particolari, veemenze o languori. I brani hanno una loro compostezza macerata, sono il frutto di ricerche laboriose (anche a livello armonico) che non traspaiono se non nel dato finale. È una quieta quanto determinata rivoluzione quella che sembra pulsare dalla tromba e dal flicorno di Kyle Gregory, dal piano del leader, dal contrabbasso di Tito Mangialajo Rantzer e dalla batteria di Roberto Dani (tutti strumentisti di alto profilo). Si prenda la coppia di brani iniziali. “Mani-Festa-Forum (social)” è dedicato alle manifestazioni genovesi anti G-8: brano a tempo libero, a tratti informale, libero e gioioso sa bene incarnare lo spirito di quelle giornate prima che la contestazione festosa si trasformasse in tragedia. “PAT (Piace A Tito)” è un pezzo a tempo scandito, dall’atmosfera onirica, che poggia su una ritmica dolcemente incalzante, con movimenti sonori quasi impalpabili. Nell’uniformità dei colori di fondo - mai equivalente a monitonia - la musica di Zambrini segna un passaggio dal trio (organico sinora privilegiato) al quartetto, con l’immissione degli ottoni di Kyle Gregory; essi introducono sfumature melanconiche e aggiungono tinte ora forti ora tenui alla musica d’insieme. Collettiva in quanto ad esecuzione e ad apporto creativo ma individuale, dato che tutti i brani sono di Antonio Zambrini, che è compositore raffinato. Un esempio, tra tanti, è “Parole al vento” in cui la tromba sordinata, vocalizzante, dà corpo al tema, incalzata dal piano con i suoi arpeggi serrati: energia controllata e non compressa. La musica parla da sola ed attribuirle significati ‘altri’ risulta spesso inutile; Zambrini, però, comunica su più livelli e la scelta di alcune foto di Silvia Tenenti (immagini che provengono dal terzo mondo e lo ritraggono con un occhio libero da eurocentrismi) per la copertina e il libretto, come i titoli di alcuni brani (“La Strada di Gino”) segnalano una sensibilità umana e politica che arricchisce l’album e fa percepire la vastità d’orizzonti del pianista e compositore. (Luigi Onori)
ETTORE MARTIN QUARTET - "Natural code" - Abeat AB JZ 004 - 53'15" Interessante questo "Natural code" e per più di un motivo. Innanzitutto la personalità del leader. Nonostante non si possa ancora parlare di un musicista completamente espresso, il tenorsassofonista Ettore Martin ha tuttavia i numeri per affermarsi nel panorama internazionale, a partire da uno splendido suono che , come giustamente sottolinea Maurizio Giammarco nelle note che accompagnano il CD , "indica...lavoro e grande rispetto per la musica e nel caso specifico un grande amore per il jazz". In secondo luogo l'organico del gruppo: due sax (oltre a Martin, Guido Bombardieri ai sax alto e soprano e al clarinetto basso) e poi due grandi della ritmica quali Piero Leveratto e Mauro Beggio rispettivamente basso e batteria. Dunque un quartetto piano-less con tutti i rischi che conseguono dal non avere uno strumento armonico. Ebbene il quartetto supera brillantemente la prova evidenziando una maturità di espressione ed una sicurezza di linguaggio che costruiscono un contesto in cui libertà improvvisativa, senso della costruzione e capacità di relazionarsi l'un l'altro si sposano magnificamente. Di qui una musica che nulla concede al compromesso, al facile ascolto, alle mode del momento : Martin e compagni vanno per la loro strada che alle volte potrà apparire impervia, difficile ma che possiede il raro dono dell'intelligenza e della non banalità.
MAX DE ALOE QUARTET - "Racconti controvento" - Abeat AB JZ 003- 58'36" Sonorità delicate, raffinate, suadenti in questo CD che accanto all'armonicista e leader Max De Aloe vede il fisarmonicista Gianni Coscia , il bassista Massimo Moriconi e il batterista Stefano Bagnoli. Facile intuire come tutto il Cd si svolga attraverso un fitto eloquio tra De Aloe e Coscia i quali dimostrano ancora una volta, se pur ce ne fosse bisogno, di come due strumenti atipici quali l'armonica e la fisarmonica se ben usati siano in grado di eseguire jazz nell'accezione più completa del termine. Ed in effetti in questo CD si ascoltano un senso dell'improvvisazione ed una carica di swing di grande impatto. Pere non parlare di quel senso vagamente retro che caratterizza le composizioni di Max a cui si affiancano un celebre brano di Henry Mancini ("Two for the roads") e due altrettanto celebri "standards" italiano quali "E se domani" di Carlo Alberto Rossi e "In un palco della Scala" dell'indimenticato Gorni Kramer. Insomma quasi un ripercorrere all'indietro la strada del tempo alla scoperta di sensazioni, emozioni che tutti noi teniamo celati magari in un angolino remoto del nostro essere e che poi riscoppiano improvvisamente all'ascolto di una melodia, di un'armonia. Insomma davvero un bel disco. Complimenti
Giovanni TOMMASO QUINTET, “Secondo Tempo” Cam, CAM 504412-2, 56’17’’ Si moltiplicano le occasioni in cui il jazz italiano rende omaggio alle musiche da film ed ai suoi autori. Giovanni Tommaso, in compagnia di Enrico Rava, aveva già realizzato nel 2000 l’album “La doce vita”, rileggendo brani da Armando Trovaioli a Goffredo Petrassi. Il contrabbassista e compositore replica l’operazione riunendo un composito ed inedito quintetto e lavorando su un repertorio differente. Al sax tenore è, infatti, il prestigioso Joe Lovano mentre l’altro fiato è l’estroso trombone di Luca Begonia; al piano c’è Antonio Faraò, artista italiano molto apprezzato in Europa e che ha a più riprese inciso per l’etichetta tedesca Enja. Oltre al leader al contrabbasso, il gruppo comprende la batterista afroamericana Terri Lyne Carrington. Con questa formazione, tecnicamente ottima, son stati affrontati e riproposti brani ‘cinematografici’ di Carlo Rustichelli (“Divorzio all’italiana”), Nino Rota (“Amarcord”, “Il Padrino”), Nicola Piovani (“La notte di San Lorenzo”), Ennio Morricone (“Il clan dei Siciliani”), Piero Piccioni (“La vita agra”), Fiorenzo Carpi (“Parigi o cara”), Benedetto Chiglia (“Porcile”) e Manuel De Sica (“Lo chiameremo Andrea”). I riferimenti filmici sono molto ampi (si va da Pasolini a Fellini) come gli universi sonori evocati dai pezzi. In linea di principio i jazzisti li hanno affrontati con una certa libertà, come fossero degli standard, riservando - però - all’esposizione tematica una particolare cura. Soprattutto Lovano ha tornito le celebri melodie (si pensi a “Il Padrino” o “il clan dei Siciliani”) dando al suo sax tenore quell’enfasi un po’ oratoria che lo contraddistingue; forse in lui ha agito la ‘memoria remota’ del melodramma - la sua famiglia è di origine siciliana - dato che ha quasi sempre centrato la dimensione sonora giusta. A fargli da contraltare il trombone di Begonia, una seconda voce duttilissima e personale. “Il cinema mi ha fatto sognare da ragazzo e molti di quei sogni si sono incredibilmente avverati”, ha scritto nel libretto Giovanni Tommaso. L’amore per il cinema traspare con evidenza in questa operazione che arricchisce il repertorio jazzistico di nuovi temi da indagare come “Divorzio all’italiana” e “La notte di San Lorenzo”, particolarmente riusciti nella nuova versione. (Luigi Onori)
Enrico PIERANUNZI / Marc JOHNSON / Joey BARON “play MORRICONE”, Cam CAM 504425-2, 64’09’’ L’incanto fragile e sottile di “Addio fratello crudele” ci proietta ad inizio album nel mondo musicale di Ennio Morricone. Alla sua musica da film - insignita del premio Oscar - molti musicisti si sono dedicati con chiavi di lettura diverse, anche jazzistiche. L’approccio di Pieranunzi e del suo scintillante trio americano (il contrabbasso plastico di Marc Johnson, la batteria affilata e tagliente di Joey Baron) ha motivazioni e caratteristiche profonde che portano ad esiti davvero interessanti. “Durante gli annui ’70 e ’80 - scrive Pieranunzi nel libretto del Cd - ho avuto infatti un rapporto ravvicinatissimo con la musica di Ennio Morricone suonando come ‘studio man’ in decine di film la cui colonna sonora era stata scritta da lui. Ritrovarmi ora ad arrangiare quella musica, a strutturalrla in modo che potesse funzionare come veicolo d’improvvisazione per il trio è stata, come si può facilmente comprendere, un’esperienza davero particolare, una ‘full immersion’ mozzafiato”. Dal canto suo Morricone ha scritto al “caro e stimato amico Enrico Pieranunzi” dichiarandosi “sorpreso, ammirato, euforico per le positive esecuzioni docve i pezzi originali, ritrovati e rispettati, hanno una fisionomia nuova, e l’interpretazione jazzistica sapiente dei tre grandi solisti non distrugge i pezzi ma li valorizza”. L’interesse, il cuore, il valore dell’operazione è, in effetti, proprio qui: il pianista romano ed i suoi eccellenti partner non si sono serviti della musica di Morricone come di un semplice pretesto (melodico, armonico, di atmosfera) per ulteriori improvvisazioni. Hanno assimilato nel profondo i brani e poi li hanno rigenerati rispettandone le caratteristiche essenziali, pur proiettandondoli in una dimensione improvvisativa. Si tratta, quindi, di costruire degli arrangiamenti efficaci e pregnanti nonchè di lavorare sull’improvvisazione tematica, quella prediletta da Sonny Rollins o Thelonious Monk. L’album è tutto di alto livello, dall’incalzante “La voglia matta” all’onirico “Jona che visse nella balena” e a modo suo costituisce una sorta di storia sonora del cinema italiano del secondo dopoguerra. Si va, infatti, dal 1962 al 1993 con colonne sonore di film direti da Giuseppe Patroni Griffi, Roberto Faenza, Luciano Salce, Piero Schivazappa, Elio Petri, Alfredo Giannetti e Giuseppe Tornatore. Film spesso indimenticabili come il loro commento musicale; valga per tutti “Le mani sporche” di Petri del 1979. (Luigi Onori)
Stefano BATTAGLIA “il Cerchio interno” Symphonia SYO 99701 57’. Perdersi nell’atemporalità del suono, nel fluire profondo e spesso inconscio dei suoi strati, nei riflessi - forti o appena percettibili - avvertiti da chi genera musica e da chi l’ascolta. Battaglia da anni indaga e pratica il piano solo come ricerca rischiosa ed estrema di “verità”. Con l’etichetta di Roberto Meo ha inciso in due giorni (maggio 1999) ben cinquantaquattro brani, nello spazio della pisana Pieve di S.Giulia: in piena solitudine, la musica è scaturita dalle sue mani danzanti sulla tastiera di uno Steinway. Trentatre sono le improvvisazioni totali - come precisa il pianista -, dieci “Danze Sacre” fondate su un nucleo tematico preesistente, otto composizioni tra cui due completamente scritte. Questa vera “summa” della poetica di Stefano Battaglia vedrà la luce in sei album (“Esalogia dell’Abside”) di cui “il Cerchio interno” è il primo. “Ho adottato questa figura, il cerchio, - scrive Battaglia nel corposo e concettoso libretto allegato al Cd - perchè non ha inizio, né fine, né direzione, né orientamento, caratteristiche che ben descrivono le mie composizioni (…) Il cerchio rappresenta Dio e il cielo, il quadrato la Terra e l’uomo, il mondo terreno e ciò che è materiale”. La doppia sfida che il pianista accetta, e teorizza, è quella di mettere in relazione il ‘divino’ ed il ‘terreno’ nonchè di affrontare il discorso sul significato dell’essere musicista, non solo jazzista: è una sfida quotidiana affrontata con rigore e coerenza, con spirito di libertà, con un’introspezione a tratti spietata. Al di là di tutte le parole, è la musica, comunque, quella che arriva dritta a chi ascolta. Il brano di apertura ha lo stesso titolo dell’album ed è improvvisazione allo stato puro, ove si avverte il vuoto iniziale (quasi un “horror vacui”) diventare materia sonora e trasformarsi in canto; “Danza settima” si basa su un ritmo composto in sette su cui Battaglia improvvisa, una sorta di canovaccio ritmico che si presta a continue e ricorrenti creazioni; “Lacrima” è una melodia strutturata in forma chiusa, gioiosa e contagiosa; “Maggio” è un lirico effondersi, eufonico e piacevolissimo, quasi balsamico … Il resto è bene che ognuno vada a cercarlo da solo, portato per mano da Battaglia a sondare anche le pieghe del proprio inconscio, del proprio “Io” più riposto e, troppo, spesso rimosso e dimenticato. Luigi Onori
Stefano BATTAGLIA TRIO “The Book of Jazz. Volume One” Symphonia SYO 00707 76’40’’. La registrazione del trio di Battaglia - con il fedelissimo Paolino Dalla Porta al contrabbasso e l’ottimo Fabrizio Sferra alla batteria - è complementare agli album in solo. Se ne “il Cerchio interno” prevaleva un mondo interiore qui si gioca sull’elaborata e paritetica dinamica del trio; se nell’”Esalogia dell’Abside” le composizioni - istantanee o no - di Battaglia dominavano, in “The Book of Jazz” si scelgono brani di importanti e ben connotati autori di jazz, lavorando sull’interpretazione e rifuggendo dalle canzoni, siano esse gli standard americani o le melodie ‘pop’ italiane che tanto vanno di moda. Certo i due album sono accumunati dalle innovative tecniche di registrazione di Roberto Meo che valorizzano l’intreccio dei suoni dei singoli musicisti, con un calore/colore che è raro riscontrare. La bravura, però, vien fuori proprio attraverso il lavoro di emersione della personalità su materiali altrui, su brani firmati da Egberto Gismonti, Thelonious Monk, Wayne Shorter Ornette Coleman, Charlie Haden, Duke Ellington, Eric Dolphy, Steve Swallow ed Horace Silver. Se il carioca ed incantato “Café”, il delicato “The Golden Number” di Haden, l’elegante “Wrong Together” di Swallow ben si addicono alla poetica del trio, Battaglia e compagni riescono ad essere convincenti anche su pagine legate alla stagione del free, come la melodicamente impervia “Congeniality” di Coleman. Il gruppo predilige i tempi medi e rinuncia, volutamente, a certe dinamiche ma il risultato è sempre di convincente profondità e di matura originalità. Luigi Onori
Gil EVANS ORCHESTRA "Live at Umbria Jazz (vol.II)" Egea - UJ, EUJ 1002, 61'05'' Questo è un album prezioso per tutti gli appassionati di jazz, per chi era a Perugia nell'edizione 1987 di "Umbria Jazz" e per i molti che non c'erano. Chi ha assistito - come il sottoscritto, per sua fortuna - ai concerti della Gil Evans Orchestra a San Francesco al Prato, l'ascolto di queste registrazioni evoca l'atmosfera di effervescente, gioiosa, imprevedibile, visionaria creatività di quelle serate. Evans guidava una band formidabile (diciotto musicisti tra cui Lew Soloff, George Lewis, John Surman, Chris Hunter, George Adams, Gil Goldstein, Ursula Dudziak) che agiva in grande libertà su una diecina di brani, ricreandoli notte dopo notte in modo diverso. Il band-leader, imperturbabile dietro al piano elettrico, guidava con impercettibili alchimie la formazione che combinava scrittura ed improvvisazione, arrangiamenti collaudati e variazioni istantanee in modo straordinario, sempre rischiando di perdere la rotta ma ogni volta imboccando la via sonora giusta. I presenti, quindi, rivivono con intensità quella pagina del passato; chi era assente o troppo giovane, invece, può assaporare il valore di quel jazz considerando, peraltro, alcuni elementi: Gil Evans sarebbe morto qualche mese dopo, nel marzo 1988; l'organico presente ad Umbria Jazz nel 1987 non registrò mai in studio (queste sono, quindi, le uniche testimonianze discografiche); il remastering e l'editing degli album sono stati effettuati sotto la supervisione di Miles Evans, il trombettista figlio di Gil, presente a quelle serate ed attualmente direttore dell'orchestra superstite. Dopo quasi quindici anni tutti i brani proposti in questo secondo volume ("Stone Free" e "Little Wing" di Jimi Hendrix; "Wake Up" della straordinaria vocalist Ursula Dudziak; "There Comes A Time" di Tony Williams, con la voce scura di George Adams; "Eleven" del caporchestra) mantengono una vitalità indomita. Gil Evans aveva la carismatica capacità di saper coniugare l'essenza del jazz coinvolgendo musicisti giovani e di altra estrazione, di sondare il repertorio rock ed estrarne meraviglie nascoste e - soprattutto - di far palpitare la musica afroamericana come musica della contemporaneità e del rischio, dell'invenzione e della novità. Tutto ciò emerge con nettezza dalle tracce dell'album live e c'è da ringraziare "Umbria Jazz" e l'etichetta Egea per questi Cd davvero imperdibili. (Luigi Onori)
Enrico PIERANUNZI, "Canto nascosto" Egea, SCA 80, 47'45'' Trecento anni ha il pianoforte, uno strumento che mantiene inalterata un'esuberante giovinezza. A Pieranunzi il compito - nello stesso tempo piacevole ed impervio - di testimoniare la sempreverde età della "tastiera in bianco e nero"; nella registrazione, presso il raccolto teatro Pavone (nel cuore medioevale di Perugia), il pianista ha potuto utilizzare quattro diversi strumenti: Steinway, Kawai, Fazioli e Borgato. Un'occasione davvero unica, concretizzatasi in occasione della manifestazione "Perugia Classico 2000". E' vero - come ricorda il musicista romano, jazzista eccellente e docente in conservatorio - che un musicista autentico riesce ad esprimere sé stesso su qualsiasi strumento ma se l'attrezzo sonoro che ha tra le mani è qualitativamente valido l'anima può davvero prendere il volo. Così il "Canto nascosto" (titolo di un seducente ed incantato brano) si dipana in dodici episodi, tutti originali ed uno ("Per due") scritto a quattro mani con Stefania Tallini. Ad aiutarci - quasi didatticamente - nel percepire le diverse timbriche degli strumenti, Pieranunzi esegue il pezzo "A Second Thought" in tre versioni, utilizzando uno Steinway, un Borgato ed un Kawai. Le esecuzioni non sono consecutive ma occupano posti strategici nell'impianto generale dell'album: 3°, 7° ed 11° titolo. In tal modo gli echi dello stesso tema si confondono con altre melodie, in una trama fitta e variegata, dominata da tempi medio-lenti. In realtà, fatte le dovute proporzioni, l'ascolto del Cd somiglia alla degustazione di una serie di ottimi vini: all'inizio si percepiscono bene le differenze, poi alla razionalità subentrano il gusto ed il piacere che non confondono ma amalgano tutto. Un apprezzamento particolare per le due schegge "Improvvisazione II" e "Improvvisazione I" (quest'ultima dall'inarrestabile energia) che ci riportano ai tempi in cui Enrico Pieranunzi esplorava la dimensione del piano-solo unendo rigore, passione e amore per il rischio sonoro. Lunga vita al pianoforte. (Luigi Onori)
Gabriele Mirabassi, "1 - 0 (Uno a zero)" Egea, SCA 088 - 51'12" Gabriele Mirabassi al clarinetto, Patrick Vaillant al mandolino, Luciano Biondini alla fisarmonica e Michel Godard alla tuba sono i protagonisti di questo splendido CD della EGEA che si colloca perfettamente nella linea estetica scelta da questa etichetta. Che Mirabassi fosse un eccellente solista lo sapevamo già da tempo, che fosse anche un eccellente organizzatore "sonoro" lo stiamo scoprendo a poco a poco e questo album lo sottolinea come meglio non si potrebbe. In effetti questa fatica discografica è frutto innanzitutto dell'innamoramento di Mirabassi per lo choro, innamoramento la cui genesi e le cui motivazioni vengono ben illustrate nelle note che accompagnano il CD. Partendo da queste premesse il clarinettista ha messo su un organico affatto atipico anche per la musica che si proponeva di eseguire…ma l'importante, nella testa del leader, non era tanto lo strumento usato quanto l'esperienza, il feeling, il bagaglio emozionale di cui ciascuno era portatore. Certo una scommessa audace ma i fatti hanno dato ragione a Mirabassi: di qui uno choro sicuramente non canonico, ma del tutto coerente con lo spirito originario e soprattutto presentato in una forma nuova ed originale in cui tutti e quattro i musicisti hanno la possibilità di esporre appieno il loro amore verso questa musica e la loro profonda conoscenza della stessa. I brani si suseguono così in rapida successione in una scaletta che privilegia i grandi compositori di questo genere: Alfredo da Rocha Vianna Filho detto "Pixinguinha" , Ernesto Nazareth e Jacob do Bandolim; non manca comunque un originale di Mirabassi "Non ci resta che …chorar!" che vi assicuriamo, ascoltatelo con attenzione, non sifigura certo in cotanta compagnia. G. G.
Kenny Wheeler - John Taylor - Gabriele Mirabassi "Moon", Egea, SCA 086 - 51'03" Un album affascinante ed interessante per più di un motivo ; innanzitutto la presenza in veste di ospite di uno dei nostri migliori musicisti del momento, Gabriele Mirabassi . Di questo clarinettista abbiamo oramai imparato ad apprezzare le indubbie qualità ma è pur sempre un piacere ascoltarlo con tanta padronanza e personalità accanto a due veri e propri "mostri sacri" quali il trombettista e flicornista Kenny Wheeler e il pianista John Taylor. In effetti Mirabassi appare perfettamente inserito nel discorso disegnato dai due e i suoi interventi appaiono sempre del tutto coerenti con il disegno generale. E dato a Mirabassi quel che è di Mirabassi, resta comunque il fatto che la bella riuscita dell'album è soprattutto merito di Wheeler e Taylor che dialogano fittamente a dimostrazione di un'evidente comunanza di interessi e di molti punti di riferimento trovati nell'universo musicale. Di qui un susseguirsi di chiamate e risposte, pause, trame armoniche ora semplici ora complesse in cui la grande padronanza strumentale mai si trasforma in tecnicismo fine a se stesso. Così Wheeler (nell'occasione solo al flicorno) distilla note di una trasparenza e allo stesso tempo incisività che ci restituiscono in tutta la sua liricità un musicista straordinario mentre Taylor si conferma un grande della tastiera sia quando punteggia il fraseggio dei compagni sia quando è egli stesso a prendere in mano le fila dell'esecuzione. Ma, ovviamente, tutto ciò non sarebbe stato sufficiente a fare un bel disco se non ci fosse stato un eccellente repertorio: ebbene tutti i nove brani del CD sono stati composti da Wheeler (6) e Taylor (3) ed è un'ulteriore riprova della grande musicalità di questi due personaggi. G. G.
Mario RAJA / Domenico STARNONE / Carla MARCOTULLI “Amori imperfetti” Egea SCA 083 44’44’’ L’idea di creare delle canzoni insieme ha sollecitato Raja e Starnone da almeno un decennio. Canzoni che non rispecchiassero la forma definita AABA - così utilizzata nella popular music e nel jazz - e che neppure si rifacessero al mondo della musica leggera. La maggior parte dei nove brani presenti nell’album nasce con una procedura particolare a partire da un titolo, fornito dal narratore e sceneggiatore. La musica creata dal compositore Mario Raja su quell’esile traccia si è infine arricchita di un testo che, come un consumato paroliere, Domenico Starnone ha incuneato nelle linee melodiche. In parallelo o successivamente il sassofonista ha arrangiato il tutto per voce (quella partecipe ed intensa di Carla Marcotulli), tre fiati (il sax tenore ed il clarinetto del leader; i clarinetti di Gabriele Mirabassi; la tromba delicata ma mai fragile di Ilaria Kramer), piano (quello sensibile e raffinato di Riccardo Zegna) e sezione ritmica (Franco Testa al contrabbasso ed il coloristico Alfred Kramer alla batteria). Ad ascoltarli i nove brani fluiscono con estrema naturalezza e fruibilità, con quella ‘leggerezza’ che nasce da un lungo e sapiente lavoro artigianale. Starnone ha colto in pieno e stigmatizzato il tema degli “amori imperfetti” disegnando varie situazioni (la coppia svogliata; la donna quarantenne con il giovane amante; la signora abbandonata; colei che si innamora di una voce maschile che interferisce nel corso di una telefonata con il padre…). La lingua “basso-discorsiva, l’assenza totale del poetico” funzionano a meraviglia con le melodie che sanno ora di cabaret, ora di chanson: la drammaticità di “Amore allo specchio”, l’andamento caracollante e un po’ bandistico di “Per interposta persona”, la contenuta ma infinita tristezza di “Un amore svogliato” (con uno statuario solo di sax tenore di Raja), la gelosia via via montante di “Dimmi perché”. “Stagioni” ha al suo interno un virtuosistico gioco vocale-sillabico di Carla Marcotulli che rappresenta una sorta di regressione della lingua dovuta alla passione (con una gustosa interpolazione di “Giant Steps” di John Coltrane su tempo di tarantella). Tra le preferite di Starnone “Ofelia” ma forse l’apice nel disco è nel bruciante abbandono mischiato ad un amaro bilancio esistenziale che prende forma in “Pensieri a passeggio”. In definitiva l’album è un’ottima dimostrazione di come lingua italiana e canzone, jazz e narrativa possano intrecciarsi. Luigi Onori
Marco ZURZOLO - "Ex Voto" - Egea - SCA 077 - 52'13" Una musica fortemente radicata nel territorio e nell'animo di un musicista: è forse questa l'essenza di "Ex Voto" un bel CD registrato a Napoli nel febbraio di quest'anno dal sassofonista Marco Zurzolo con la banda M.V.M. e con Enzo Moscato (voce) e Piero Leveratto (contrabbasso) nella veste di ospiti d'onore. Musica fortemente radicata, dicevamo, in quanto come conferma lo stesso Zurzolo nelle note che accompagnano il CD, lo stesso trae ispirazione proprio dal rito della Madonna dell'Arco risalente alla metà del '400, con profonde radici nelle culture mediterranee. Passione, frenesia, disperazione, euforia sono secondo Zurzolo gli elementi che si fondono e danno vita a questo culto così straordinario ed è proprio questa l'atmosfera che Zurzolo ha cercato di ricreare nei suoi brani. Obiettivo centrato dal momento che, partendo da queste premesse, il disco si legge anche come il portato di un profondo coinvolgimento interiore. Non a caso in ognuno dei dodici brani che compongono il CD è possibile cogliere tutti e tre gli aspetti che caratterizzano la partecipazione al rito: dapprima il dolore, successivamente la speranza e quindi una sorta di momento consolatorio . Come si nota, quindi, una tematica assai complessa che viene ben resa dalla musica di Zurzolo che sia nei brani di sua composizione sia i quelli riarrangiati dalla tradizione denota mano sicura e sincerità di ispirazione. Insomma un album non banale che merita più di un ascolto per essere compiutamente apprezzato.
"Luna Park" - Egea - SCA 072 - 43'27" Pietro Tonolo ai sax tenore e soprano, Gabriele Mirabassi al clarinetto, Massimo Pirone tuba, Rossano Emili sax baritono, clarinetto e clarinetto basso, Giampaolo Casati tromba e cornetta e la cantante Francesca Rossi sono i protagonisti di questo interessante album registrato a Perugia il 17 e 18 maggio scorsi. Il gruppo di soli fiati, con l'aggiunta della Rossi nell'ultimo brano ("Ninna nanna a sette e venti") , dimostra un'originalità di impostazione e un affiatamento davvero notevoli. L'intersecarsi delle parti, la sovrapposizione delle linee disegnate dai vari strumenti, il ruolo differente che gli stessi si ritagliano - ora di voce solista, ora di supporto ritmico-armonico parlano di un progetto certo non occasionale. Composizioni ben scelte (tre sono di Pietro Tonolo e Piero Leveratto) arrangiamenti ben strutturati, esecuzioni sempre calibrate ma a tratti entusiasmanti, evidenziano l'alto livello di questi musicisti che rappresentano effettivamente alcune delle punte di spicco del nostro panorama jazzistico. E' il caso di Pietro Tonolo -lo si ascolti ad esempio in "Semitango" , di Gabriele Mirabassi (assai pregevole la sua interpretazione di "La banda elastica" e di Roberto Rossi che si fa partricolarmente ammirare in "Klop".
"Lo Stortino" - Egea SCA079 - 43'28" Intrigante questo CD ancor prima di ascoltarlo data l'inusualità dell'organico: Gabriele Mirabassi al clarinetto, Luciano Biondini alla fisarmonica, Michel Godard alla tuba e Francesco D'Auria alle percussioni. E già dalla prima traccia si conferma questa impressione: "Kramara" è un brano di Mirabassi che si svolge su tempo medio-veloce evidenziando immediatamente le doti di tutti e quattro i musicisti con Biondini e soprattutto Godard in particolare evidenza che con il suo ostico strumento disegna un ricchissimo fondale su cui si stagliano gli assolo di fisarmonica e clarinetto. E l'album è davvero ricco di soluzioni sorprendenti, mai stantie, dovute ora alla particolare timbrica del gruppo, oraall'estro improvisativo di Biondini e Mirabassi, ora alle splendide melodie scritte dallo stesso Mirabassi autore di quasi tutti i brani presenti nel CD. E davvero questo album rappresenta forse l'esame di laurea per il Mirabassi compositore dato che alcuni pezzi sono davvero da incorniciare: ascoltate, al riguardo "Hotel Danubio" venato di qualche reminiscenza mittleuropea e soprattutto il brano che da il titolo all'intero CD, "Lo Stortino " che segue un andamento articolato, dal lento-nostalgico all'andante per ritornare al meditativo - ma sempre con una fresca linea melodica ed un impianto armonico che offre a tutti i componenti del gruppo la possibilità di porsi in evidenza.
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