Fabio MORGERA “Colors” Red Records 123295-2 RED 73’53’’ Morgera è un trombettista trentanovenne che ha trovato negli Usa credito e spazi, alla pari di altri artisti italiani affermatisi all’estero quali Riccardo Del Fra (in Francia), Roberto Bellatalla (in Inghilterra) e Patrizia Scascitelli (ormai newyorkese). Formatosi in parte in Italia - grazie alla lungimiranza di Giorgio Gaslini -, Fabio Morgera alla metà degli anni Ottanta è partito per Los Angeles; il concorso di arrangiamento di Barga (da lui peraltro vinto) lo ha riportato in Italia ma tra il 1987 ed il 1989 ha frequentato il Berklee College of Music di Boston. Inciso il primo album come leader per la Red Records (Take One”, con George Garzone ospite; 1988) il trombettista italiano si è stabilito nel 1990 a New York. Gli otto anni trascorsi nella Big-Apple traspaiono in filigrana negli undici titoli di “Colors”, inciso al newyorkese Studio 900 nel marzo 2000. Nel suo gruppo si distinguono un’elastica sezione ritmica con Eric Revis al contrabbasso ed Alvester Garnett alla batteria; al piano si alternano James Hurt e Joe Rybczyk jr.; al sax tenore è fisso l’ottimo J.D. Allen mentre in parecchie tracce compare l’acclamato trombonista Steve Turre. Giò l’organico da solo dimostra quanto Morgera sia inserito nella scena musicale di New York e come, ormai, si relazioni con i suoi colleghi americani in modo del tutto paritario (i brani - ciascuno intitolato con il nome d uncolore - sono tutti di sua composizione). La musica dimostra l’ampio raggio di interessi di Morgera che sfoggia una ferratissima e brillante conoscenza del linguaggio trombettistico ma ha sempre guardato ad esperienze parallele al jazz (i gruppi Groove Collective ed Urbantap). Così dopo i tiratissimi “Yellow” e “Red” - tutti intessuti sulla dialettica stretta tra tromba, trombone e sax tenore -, regala un momento di intenso raccoglimento per tromba sordinata e piano (“Blue”). L’eleganza del tempo dispari di “White” è accompagnata da una morbida melodia all’unisono mentre il funky ‘concettuale’ di “Grey” gioca su un tema ad incastro tra le tre voci strumentali, con un inciso ‘latino’ e disteso. “Pink”, dal canto suo, ha una sostanza quasi innodica, venata di malinconia, che tromba e trombone sanno dipingere con mano ferma. Un album, quindi, sostenuto da doti compositive, solistiche e da sicura ispirazione, frutto di un artista davvero maturo che in Italia meriterebbe maggiori riconoscimenti. (Luigi Onori)
Hector “COSTITA” BISIGNANI “Estão Todos Aì” Red Records 123286-2 RED 59’54’’ Disco inciso nel settembre/ottobre 1999 a São Paulo, mette in evidenza soprattutto la personalità del leader e sassofonista argentino Hector “Costita” Bisignani ma anche quella del bassista, chitarrista e compositore Paulo Paulelli, autore di tre brani su otto. Bisignani ha già trovato spazio nel catalogo Red: in un bell’album di Luis Agudo (“Dona Fia”, 1990) ed in un Cd a suo nome, “A noite è minha”. Nato a Buenos Aires ma affermatosi musicalmente in Brasile, ha collaborato con artisti di grande importanza quali, tra gli altri, Lalo Schifrin, Sérgio Mendes, Elis Regina, Elizete Cardoso, Hermeto Pascoal, Ivan Lins e Claudio Roditi. Cosa lo rende particolare? Se si ha la pazienza di ascoltare l’album più volte vengono fuori alcuni elementi di pregio che, non a caso, inducono il produttore Segio Veschi a paragoni tra il sassofonista e grandi narratori sudamericani, da Gabriel Garcia Marques ad Isabel Allende. Bisignani ha un senso tutto suo del blues, come dimostra in “Impacto Blues” (qui fa uso di sovraincisioni, dando peraltro vita ad una vera e propria sezione ance) e “Surprise Blues”. E’ un blues che si fonda paritariamente sulla lezione afroamericana e sui ritmi ed il melos afrobrasiliani, conservando una cantabilità estrema e solare. La cantabilità lineare, poi, si ritrova in tutti i soli del sassofonista, unita ad un sound cristallino e tornito - ora dalla soffice impalpabilità (“Arturo Gold Finger”) ora scuro e vigoroso - nonché ad un fraseggio colmo di relax, di una tensione sottile come in Lester Young (anche se ascoltando Bisignani vengono in mente i nomi di Stan Getz, Gene Ammons e Dexter Gordon). Il musicista argentino, inoltre, appare davvero straordinario come clarinettista: usato nel suo registro grave (chalumeau) ma non solo, è davvero affascinante per la sonorità piena, il totale controllo, l’espressività. Tra i nove brani dell’album c’è l’imbarazzo della scelta ma “Estão Todos Aì”, “Zanzibar” (di Edu Lobo), “Impacto Blues”, “Lucia (Odalisca)” ed il samba “La Maja Brasileira” danno un’idea panoramica della poetica di Bisignani, da Veschi appropriatamente definita “Latin America Jazz… nord e sud del mondo”. (Luigi Onori)
Nicola MINGO “Talkin’ Jazz” Red Records 123293-2 RED 68’31’’ Album che ben evidenzia la filosofia Red Records, quel senso di continuità con la vicenda del jazz incardinato su alcuni valori sonori ritenuti fondanti. Il protagonista, del resto, dimostra di conoscere nelle pieghe più intime e riposte l’asse portante della musica afroamericana; è in grado di dimostrarlo sia nel padroneggiare composizioni (da “Tenor Madness” di Sonny Rollins ad “Ezz-thetic”” di George Russell) che dando corpo ai propri modelli (il chitarrista napoletano si dichiara ispirato - e si sente - dalla lezione di Grant Green, Wes Montgomery e Joe Pass), sia - infine - mettendo in luce capacità solistiche brillanti, che uniscono ai mezzi tecnici gusto e passionalità. Nicola Mingo è, peraltro, ben accompagnato da Antonio Faraò al piano, dai contrabbassisti Joseph Lepore e Luca Bulgarelli e dalla batteria di Amedeo Ariano. Oltre che spaziare nel repetorio del “modern mainstream” (magistrale la sua “Billie’Bounce” che ha un illustre precedente nella versione di George Benson), Mingo propone alcuni suoi brani: “Passion” (con la complessità ed i ruoli multipli della chitarra derivati dallo studio di Joe Pass), “Blues for Grant Green” che è un gioiello impreziosito di relax sapiente e swing sottile, “Contemporary Song” dagli accenti più meditativi, “One for M.Petrucciani” che evoca le atmosfere incantate e le melodie contagiose del pianista francese. Un giovane jazzista, quello napoletano, che il produttore Sergio Veschi ha saputo valorizzare in questo corposo album. (l.o.)
David BINNEY & Edward SIMON “Afinidad” Red Records 123296-2 RED 51’44’’ Da alcuni anni la Red Records sta valorizzando un “jazz del terzo mondo”, artisti spesso centro e sudamericani che su un asse sonoro jazzistico impiantano le musiche del proprio paese, senza folclorismi ma con il recupero e l’attualizzazione di importanti bacini sonori, periferici solo per precise scelte del mercato discografico e comunicativo. I nomi che vengono alla mente - oltre all’argentino ed apolide Luis Agudo - sono quelli del batterista Norberto Minichillo, del chitarrista Pablo Bobrowicky, di Hector ‘Costita’ Bisignani. “Afinidad” di Binney e Simon segna un’ulteriore tappa su questo cammino perché - come ha felicemente scritto Luca Conti nelle note di copertina- “ tutta l’opera è attraversata - proprio come un fiume sotterraneo il cui corso, a volte, esce alla luce del sole - da situazioni e richiami alle culture centro e sud americane, non solo di matrice popolare ma anche, come nel caso dei due suggestivi aforismi di Alberto Ginastera, di rigorosa impronta novecentesca”. David Binney (altosassofonista e compositore) è nato a Miami ma cresciuto a Ventura, in una zona della California del Sud molto influenzata dalla cultura messicana e latina; Edward Simon (pianista e compositore) è venezuelano d’origine e vanta collaborazioni con tutti i maestri del latin-jazz, da Manny Oequendo a Paquito D’Rivera. Nell’album sono accompagnati (secondo vari organici che vanno dal duo al settetto) dall’ottimo e duttile Scott Colley al contrabbasso, dal chitarrista acustico Adam Rogers, dal batterista Brian Blade, dal percussionista Adam Cruz e dalla vocalist Lucia Pulido.Cd all’apparenza di facile ascolto, riserva in realtà continue sorprese, picchi emotivi alternati a pagine quasi cameristiche, brani travolgenti ad esecuzioni rigorose e misurate. “Red” ma soprattutto “Red Reprise” si avvitano su un trascinante riff ed esplodono in modo entropico, scaricando energia ed ebrezza ritmica. “Civil War” ha una melanconia sottile nel tema, trasmette un senso di lutto e di impotenza. In “Pere” i ritmi latini escono allo scoperto e Simon sfodera un assolo che coniuga il jazz di McCoy Tyner con la sfrangiata varietà delle musiche afrolatine. “Simplicity”, per piano ed alto, è tutta scritta e rifulge per la statura del suo tema. Binney e Simon meritano, in definitiva, un ascolto attento per il carico di novità del loro linguaggio, di un jazz terzomondista ed interculturale che sanno far vivere. (l.o.)
Luis AGUDO “Afroera / Afrosamba” Red Records 123185 - 2 RED 77’09’’ Se c’è un musicista afroamericano nel senso più profondo del termine questo è l’argentino Luis Agudo, che in Italia ha soggiornato a lungo. Egli suona più di trenta strumenti oltre alla batteria e canta, costituendo da solo quello che ama chiamare Afrolatin Solo Percussion Ensemble. “Il percorso percussivo e di ricerca, documentato in questi lavori maturati nel corso degli anni, testimonia - ha scritto il musicista a proposito dei propri album - la mia fedeltà a dei linguaggi studiati e appresi in America Latina e Africa”. Impresionante è, in effetti, la lista dei paesi visitati oltre a quella dei musicisti africani conosciuti di persona a Parigi, Roma, Milano, Stoccolma, New York e Los Angeles. Quarant’anni di nomadismo percussivo fanno di Luis Agudo un musicista straordinario, fuori dal comune, che ha accumulato un patrimonio di conoscenze vastissimo. La Red Record ristampa in un unico Cd due suoi album degli anni Ottanta: “Afroera” registrato da Gianluca Spagnoletti a Roma nel 1980; “Afrosamba” inciso nel 1984 a Milano da Giancarlo Barigozzi. Diciotto sono sue composizioni mentre una (“Like Sonny”) è di John Coltrane, indiretto omaggio ad Elvin Jones, nel cui gruppo - oltre a mille altri - Agudo ha militato. Oggi la musica etnica è pervasiva e manipolata, muove interessi ed appetiti commerciali ma nei primi anni Ottanta “questi linguaggi di origine popolare e di paesi poco esposti e fuori moda, erano considerati un semplice esotismo”. Agudo volle allora “documentare sotto forma discografica questi ritmi e suoni ancestrali in modo che l’ascoltatore abbia la possibilità di familiarizzare e prendere coscienza della loro esistenza nella loro forma acustica reale”. Si trattava allora di un’operazione visionaria ed avanzata che ha valore ancora oggi, anche perché sovrapponendo la voce e le percussioni Luis Agudo compie una mirabile sintesi tra intento documentario e ricreazione fantastica, tra indagine sul campo e fantasia musicale. Qualche esempio, tanto per intendersi: uno dei brani si chiama “Afroera” e si basa su un ritmo tipico argentino (della zona di Santiago del Estero) eseguito con strumenti africani; ancora c’è “Agudù”, un ritmo di sua creazione che fonde il mambo ed il batuque. Agudo lavora in questo modo, unisce i linguaggi percussivi della diaspora nera creandone di nuovi con risultati che conservano la forza della matrice originaria ma esprimono a vasto raggio una fantasia ed una creatività davvero incontenibili. Luigi Onori
Robert STEWART “Nat the Cat / The Music of Nat King Cole” Red Records 123292 - 2 RED 58’52’’ La dedica al famoso “crooner” afroamericano può sembrare fuori luogo. Stewart - solista di sax tenore nativo di Oakland e già a fianco di Wynton Marsalis - ha un suono abrasivo, vigoroso, ricco di incrinature ed increspature, caratterizzato da felice sintesi tra l’oratoria di Coleman Hawkins e l’esuberanza di Pharoah Sanders (che il giovane sassofonista ha conosciuto e frequentato). La sua voce strumentale appara davvero lontana dalla vocalità inappuntabile, confidenziale e calibrata di Nat Cole, che era peraltro un pianista eccellente; eppure in comune i due musicisti hanno classe strumentale, senso dello swing e feeling nonché il repertorio; il “sound” di Robert Stewart in queste riletture vibra antico eppure moderno, con le sue risonanze così intime e naturali, i vibrati, i fraseggi sul registro grave che evocano il rhythm and blues ed i sassofonisti “honkers”. I primi titoli già ci forniscono la chiave di lettura dell’intero album. “Nat The Cat”, brano originale, ha un tema a riff trascinante e saturo di swing, con un’improvvisazione che diventa subito torrida. “Make Her Mine” disvela tutta la sensualità di una ballad a tempo lento, e sensuale Net Cole lo era! “Harlem After Midnight” è un elegante bozzetto notturno, con un pizzico di mistero da romanzo giallo o noir. Classe allo stato puro è “Blue Gardenia” come il conclusivo “Mona Lisa” (quest’ultima per piano e sax tenore), due classici del repertorio di Nat King Cole riproposti con affetto e maestria. Luigi Onori
Robert STEWART - "Judgement" - Red Record C'è ancora qualcuno secondo cui, oggi, per fare della buona musica si debba necessariamente seguire la strada della sperimentazione? Se per caso ci fosse allora lo invitiamo, caldamente, ad ascoltare quest'ottimo CD del giovane tenorsassofonista Robert Stewart. Scoprirà, se pur ce ne fosse bisogno, di come il livello artistico non necessariamente vada disgiunto dalla tradizione. Questo per dire che il tenorsassofonista Robert Stewart si colloca nel solco del grande jazz di cui ha ereditato il gusto per la sonorità piena, l'eleganza del fraseggio, una certa struttura dell'improvvisazione, la cantabilità delle linee melodiche. Siamo, quindi, in pieno mainstream, se vogliamo, ma quanta ricchezza in questa corrente stilistica! Stewart non fa nulla per nascondere le proprie origini, anzi! E così nella sua musica sono chiaramente distinguibili le influenze di Ben Webstercosì come di John Coltrane o Sonny Rollins senza però che questa influisca minimamente sull'originalità dell'espressione. E la cosa appare ancor più evidente ove si consideri che lo stesso Stewart è autore di ben sei degli otto brani contenuti nel CD tra cui personalmente preferiamo "Judgement" in cui il sound di Stewart si arricchisce di sfumature africaneggianti che aggiungono un altro tocco di coerenza alle concezioni musicali del sassofonista.
Piero BASSINI - "Nostalgia" - 53'19 - Red Record 123226-2 Se nel mondo del jazz la valenza artistica non è certo legata al numero delle copie vendute, tuttavia qualche volta c'è la classica eccezione che conferma la regola. E'il caso di questo "Nostalgia" che è uno dei CD di jazz italiano più venduto. Il motivo è semplice: Piero Bassini è un grande musicista, che eccelle non solo come strumentista ma anche come compositore. Questo "Nostalgia" ne è l'ennesima conferma: il CD, giocato su toni intimistici, riafferma quelle che sono le grandi qualità di Bassini: un tocco leggero ed elegante, una squisita preferenza per un solismo all'apparenza semplice ma armonicamente complesso, un gusto per linee melodiche di toccante poesia. E in questo senso scegliere tra i nove brani che compongono il CD, tutti dovuti alla penna dello stesso Bassini, è impresa non proprio semplice: personalmente preferiamo il brano "Nostalgia" che da il titolo all'intero CD e "Reflections", ma è l'intero CD che sembra rispondere appieno a quella sincerità d'espressione che da sempre riempie di contenuti la poetica di Bassini: ricerca di un linguaggio nuovo, originale, ma senza rifiutare i grandi modelli del passato, in una sorta di continuo rimando tra modernità e tradizione che fa di Bassini uno dei pianisti più interessanti dell'attuale scena jazzistica non solo italiana.
Pablo BOBROWICKY - "Where we are" - 60.07 - Red Record RR123288.2 Dopo "South of the world", il secondo lavoro da solista di Pablo Bobrowichy. In questo suo ultimo lavoro il chitarrista argentino conferma quanto di buono avevamo avuto già modo di ammirare nel suo primo album: un'assoluta padronanza dello strumento, un fraseggio fresco ed originale, una concezione del trio che non si limita a mettere in evidenza le doti del leader ma pone giustamente in risalto anche le caratteristiche dei due ottimi partners: Martin Iannaccone al basso e Jose M. "Pepi" Taveira alla batteria. Ma torniamo a Bobrowichy per sottolineare come si tratti, indubbiamente, di uno dei più brillanti chitarristi del momento, un artista che sembra aver compreso pienamente la lezione del passato, non solo jazzistico, e che sa perciò innervare tale lezione con la sua squisita sensibilità di uomo contemporaneo, aperto ad ogni influsso. Questo CD ne è la piena conferma con un repertorio che, pur essendo essenzialmente basato sulla rilettura di celebri brani della storia del jazz (dall' ellingtoniano "Come sunday" a "Evidence" di Thelonious Monk a "Body and soul"..) si presenta, specie dal punto di vista ritmico, aperto a influenze diverse. Insomma davvero un disco da ascoltare ed apprezzare nella sua interezza perché, cosa che in effetti non accade troppo spesso, l'album è davvero lo svolgimento di un discorso che quindi va seguito dall'inizio alla fine per essere del tutto compreso.
SALVATORE TRANCHINI with JERRY BERGONZI AND FRANCO AMBROSETTI - "Radio Suite" - Red Record 123280 Un album tanto coraggioso quanto originale: immaginate di avere musiche sostanzialmente napoletane, improvvisazioni prettamente jazzistiche e poi una serie di sketch tratti da un ipotetico zapping radiofonico. Mettete tutti questi elementi in una sorta di frullatore e poi costruite un discorso che abbia una sua logica strutturale. Ecco questo è il senso di "Radio Suite", un senso che balza evidente dall'ascolto dell'intero album costruito con un'arguzia e un senso dello spettacolo, nell'accezione migliore del termine, davvero non comuni. Così non appare alcuna frattura tra i brani parlati , il lirismo delle musiche scritte dall'autore napoletano Pericle Odierna e i brani jazzistici eseguiti con perizia da una formazione guidata da Tranchini alla batteria e comprendente eccellenti solisti come Jerry Bergonzi ai sassofoni, Franco Ambrosetti tromba e flicorno, Antonio Faraò al piano e Mike Richmond al contrabbasso. Ed in alcuni momenti questi due ultimi elementi - jazz e melodia napoletana - si fondono in mirabile sintesi com'è il caso di "Femmena" dando vita ad una forma espressiva affatto nuova e coinvolgente.
RAY MANTILLA & BOBBY WATSON/THE JAZZ TRIBE - "The next" step - 59.36 - Red Record 123285.2 Bobby Watson al sax alto, Jack Walrath alla tromba, Ronnie Mathews al piano, Rai Mantilla alle percussioni, Curtis Lundy al basso e Victor Lewis alla batteria: crediamo basti l'elencazione degli artisti per avere un'idea precisa della musica che si ascolta in "Next step". E' un'altra tappa nella continua e proficua ricerca di Ray Mantilla che continua ad esplorare gli ampi territori sui cui crescono, in comune rigogliosamente, le piante della musica "latina" e del jazz. Di qui un idioma che trascina l'ascoltatore, anche il più distratto, in un viaggio immaginario che non smette di sorprendere grazie soprattutto alle straordinarie qualità dei solisti che compongono l'ensemble. E al riguardo, non si può non sottolineare ancora una volta la grandezza musicale di Bobby Watson. Il musicista, pur rappresentando una sorta di summa dei grandi sassofonisti del passato (da Parker a Coltrane a Coleman) è tuttavia riuscito ad elaborare uno stile del tutto personale con un sound affatto riconoscibile, segno distintivo di un grande artista. A fargli da partner strordinario, in questo contesto, è Jack Walrath che si fa ammirare ancora una volta per il particolare timbro della sua tromba. E poi c'è il leader, quel Ray Mantilla che fa delle percussioni un duttile strumento per creare quella sua musica così personale, scintillante, trascinante. Si ascolti, ad esempio , il brano che apre l'intero CD "Mantilla's jam" o "Camino al cielo" due composizioni dello stesso Ray Mantilla.
Massimo URBANI - "Blessing " - Red Record 123527 - 2 Non c'è alcun dubbio che se il mondo del jazz italiano ha conosciuto un genio questi è stato sicuramente Massimo Urbani la cui prematura scomparsa ha lasciato un vuoto che non sarà facile colmare. Adesso è facile riconoscergli la palma del "migliore" ma quando era in vita non erano certo in molti, al di fuori della sempre troppo ristretta cerchia degli addetti ai lavori (e per giunta non tutti) a considerarlo davvero un grande. Ma Massimo lo era, al di fuori da qualsivoglia schematismo o caratterizzazione: Massimo era un sontuoso musicista, che aveva ricevuto in dono uno straordinario talento , sviluppato in piena e totale libertà di pensiero e d'azione. Ma, come al solito, le parole sono parole e raramente riescono ad esprimere quanto si vorrebbe. Vi invitiamo, quindi, ad ascoltare con la massima attenzione questo trascinante documento dell'arte di Massimo, inciso poco prima della sua scomparsa, con Danilo Rea, Giovanni Tommaso, Roberto Gatto e Maurizio Urbani in veste di ospite. Vi scoprirete tutte quelle caratteristiche che fanno dire di Urbani che era un genio: straordinaria abilità tecnica, senso armonico, incredibile facilità nella costruzione dell'assolo, una strabordante energia...e soprattutto una grande, inarrivabile, stupefacente fantasia creativa.
THE LARRY GOLDINGS TRIO "As One" Palmetto Records PM 2068 - 49'41" Nativo di Boston ma da anni attivo sulla piazza di New York Larry Goldings è uno degli organisti più rinomati ed apprezzati dell’attuale scena jazzistica americana. Gli ultimi anni lo hanno visto affiancare la sua notevole attività solistica ad innumerevoli collaborazioni tra cui spicca quella con il supergruppo creato dal sassofonista Michael Brecker e dal chitarrista Pat Metheny. Il quartetto che ha girato tutta l’Europa con grande successo nell’estate del 2000 ( visto anche ad Umbria Jazz) era completato dal batterista Bill Stewart , vecchio amico di Goldings nonché colonna del suo trio assieme al dotato chitarrista Peter Bernstein. I tre, pur tra molti impegni personali, sono insieme da oltre dieci anni e questo “ As One” è la loro seconda prova per la Palmetto. Pur non rinnegando affatto la decisiva influenza del grande Jimmy Smith il jazzista si rivolge con attenzione anche ad organisti meno “convenzionali come Lary Young o, per andare al presente, a Dan Wall di cui ci sembra degno collega-rivale. Il trio suona un jazz inequivocabilmente bianco caratterizzato da atmosfere vibranti e nervose in cui l’organo di Goldings disegna frasi a volte allucinate e spesso cariche di “swing camuffato. Scorrendo la scaletta si notano molti originali ma anche una composizioen di Carla Bley, anch’essa organista dallo stile atipico, ed un vecchio brano rock anni settanta degli Zombies di Rod Argent che viene tramutato dai tre in un sapido brano di jazz psischedelico. Goldings ha iniziato con Jon Hendricks ed ha poi suonato a lungo il funky con Maceo Parker. Ascoltate con attenzione “As One” e troverete tracce di tutte queste sue esperienze passate. Il gioco d’equilibri tra passato presente e futuro è il piccolo segreto di questo superbo trio.
JON GORDON - BILL CHARLAP "Contrasts" Double Time Records DTRCD 185 - 53'14" “Jazz da camera” della miglior fattura quello proposto in duo dal pianista Bill Charlap e dal sassofonista e clarinettista Jon Gordon. La coppia è unita dalla comune ammirazione per la figura dell’alto sassofonista Phil Woods che è stato maestro del fiatista ed ha accolto nel suo gruppo qualche anno fa Charlap che ha avuto l’arduo compito di sostituire un musicista del calibro di Jim Mc Neely. Cresciuti assieme e compagni di corso nella scuola di musica da essi frequentata sin da precoce età i due sono divenuti amici e non hanno mai smesso di collaborare pur portando avanti differenti carriere soliste. Jon Gordon è rimasto sinora abbastanza nell’ombra ma la sua reputazione presso gli appassionati che frequentano la scena dei club della Big Apple è assai elevata. Lo stesso Woods lo indica come uno dei suoi più dotati eredi. Più fortunato e forse “evidente” Bill Charlap che dopo una proficua gavetta ha trovato un contratto prestigioso con la Blue Note che ha individuato in questo giovane ed elegante pianista bianco l’elemento per traghettare il mainstream jazz nel nuovo millennio. La tecnica e la disinvoltura del pianista sono portentose e ben si sposano con la poetica delicata e crepuscolare del sassofonista e clarinettista. La scelta di eseguire brani in prevalenza arcinoti è voluta perché la coppia sa come rendere magica ogni reinterpretazione. Classici come “Stardust” , “Over The Rainbow” e “These Foolish Things “ sono eseguiti in maniera memorabile. I due non hanno timore di osare e nei brani originali dimostrano di essere in grado anche di uscire dal cliche’ del mainstream che contraddistingue la gran parte del lavoro. Due jazzisti della penultima leva che hanno davanti a se’ un futuro ricco di promesse.
Calogero MARRALI - "Homage to Jackie McLean" Splasc(H) CDH 834 - 43'15" Il batterista Calogero Marrali da ancora una volta un saggio della raggiunta maturità espressiva attraverso questo CD dedicato a Jackie McLean sicuramente una delle figure più importanti nel determinare lo sviluppo della lezione parkeriana. Per questa suo nuovo album, Marrali si avvale di un gruppo composto da Jim Snidero al sax alto, Thilo Wagner al piano, Lorenzo Petrocca alla chitarra, Davide Petrocca al contrabbasso…e già questo stesso organico fuga alcuni dubbi che potevano sorgere dal titolo del disco. In effetti spesso gli omaggi si traducono in una rilettura pedissequa del personaggio che si desidera ricordare; non è il caso di Marrali e, come accennavamo, la presenza di una chitarra fa capire che il terreno su cui ci si muove è un altro. In effetti l'intento di celebrare Jackie McLean è ben presente ma in modo affatto personale. Di qui, oltre che la scelta dell'organico, quella del repertorio con quattro brani del sassofonista, tre a firma di Marrali ed un altro omaggio oramai divenuto "storico" vale a dire quel "Blues for Jackie", firmato da Kenny Dorham. Il risultato è notevole grazie soprattutto allo spirito con cui i musicisti affrontano le partiture; e al riguardo davvero notevoli, a nostro avviso, le riletture dei brani di McLean quali "Up" preso su un tempo assai veloce, e "Cheers" tutto giocato su una toccante chiave intimista. Dal punto di vista solistico, tutti i musicisti hanno uno spazio adeguato in cui, almeno per noi, è stata una gradevole sorpresa il pianista Thilo Wagner. G. G.
Umberto Petrin - "Voir loin" Splasc(H) - CDH 832.2 - 60'50" Ancora un eccellente album di Umberto Petrin , pianista dotato di grande inventiva, di eccellente tecnica, di feeling sopraffino e soprattutto di una grande sincerità di ispirazione. E' questa a nostro avviso la sua dote migliore che lo spinge a misurarsi su terreni tutt'altro che semplici alla ricerca di una propria identità espressiva e quindi di un modo di esporre le proprie idee musicali che sia davvero personale . Di qui una musica che nulla concede allo spettacolo e che anzi impegna al massimo l'ascoltatore pena il non riuscire più a seguire la logica del disco. Non è certo un caso, quindi, che nell'album figuri come "special guest" il poeta Milo De Angelis impegnato a recitare una sua composizione con musica dello stesso Petrin ("1 e 87") . Insomma un viaggio all'interno di un mondo poetico che in quanto tale non conosce confini ma che, come accennavamo, per essere adeguatamente fruito abbisogna di una qualche attenzione. Dal canto suo Petrin, oltre che leader intelligente e "organizzatore" accorto, si dimostra ancora una volta musicista brillante e a tratti davvero trascinante sciorinando lucidità di intenti e capacità di lanciarsi in lunghi assolo che conservano sempre il senso della costruzione . Ovviamente il buon esito del disco è dipeso anche dagli eccellenti compagni d'avventura che Petrin si è scelto, vale a dire il contrabbassista Giovanni Maier (sempre più convincente nelle sue uscite) e il batterista e percussionista Roberto Dani che dimostra di aver compreso appieno la lezione dei più grandi drummers del passato. G. G.
Gianni CAPPIELLO - “Incendi marini” Splasc(H) CDH709.2 - 6’14” E’ con colpevole ritardo che segnaliamo questo album, ma lo facciamo perché ci sembra interessante che i nostri lettori conoscano questo nuovo talentoso pianista. Gianni Cappiello si presenta al giudizio degli ascoltatori con un gruppo molto ben assortito: Nicola Stilo al flauto, Fabrizio Bosso alla tromba e flicorno, Francesco Satolli al sax alto, Pietro Ciancaglini al basso, Mauro Beggio alla batteria, con l’aggiunta della vocalist Sara Gamarro costituiscono un ensemble di tutto rispetto che evidenzia appieno le qualità del leader, che si segnala anche come buon compositore. In effetti dei dieci brani presenti nel CD ben sei sono originals mentre gli altri sono composizioni rispettivamente di Kern e Fields (“The way you look tonight”), di Charles Mingus (“Duke Ellington’s sound of love”) e di Miles Davis (“Milestones”). Ed è proprio in questi tre pezzi che, a nostro avviso, risaltano maggiormente le doti sia di Cappiello sia dell’intero gruppo: l’impegnativo materiale tematico viene affrontato con reverenza ma senza subirne un acritico fascino. Di qui una musica che , pur conservando lo spirito originario, riflette comunque la sensibilità di musicisti d’oggi, con una ricerca particolare per quanto concerne la timbrica e l’inserimento dei tre fiati che svolgono quasi un lavoro di cesello, completato da una sontuosa sezione ritmica che accoppia swing a leggerezza, incisività a semplici sottolineature. Dal canto suo Gianni Cappiello , che nulla fa per nascondere l’immancabile debito nei confronti di Bill Evans, si dimostra tuttavia musicista maturo laddove non tenta di strafare e si accontenta di porgere il “suo” discorso con levità e soprattutto una gran sincerità che fa ottimamente sperare per il futuro di questo musicista. G. G.
Paolino DALLA PORTA Ensemble "La ballata di Domenica" Splasc (H) - CDH 830.2 - 51'25" E' con piacere che registriamo l'uscita di questo CD e con esso la riproposizione di un musicista di cui , in questi ultimi tempi , poco si era sentito parlare : Paolino Dalla Porta. Il contrabbassista si ripresenta alla testa di un settetto con la colonna sonora scritta per un film di Wilma Labate. Di solito, in operazioni del genere, è assai difficile valutare una musica senza vedere le immagini. Viceversa, questa volta, la musica di Paolino Dalla Porta conserva intatta la sua valenza e si presta perfettamente ad un ascolto in sé. E da questo punto di vista l'album appare ben strutturato e permeato di una particolare atmosfera al limite tra l'intimista e il nostalgico che evidentemente fa parte de film ma che potrebbe benissimo prescinderne e riflettere esclusivamente le motivazioni del compositore. In questo quadro il gruppo si muove con eleganza e pertinenza anche perché le individualità sono tutte di spicco : dai fiati (Paul McCandless dalla sonorità sempre preziosa e inconfondibile e Riccardo Luppi) ai tastieristi (Andrea Dulbecco che continua a migliorare e Antonello Salis sempre grande specie alla fisarmonica), dalla chitarra di Bebo Ferra alla batteria di Francesco Sotgiu... per finire con il contrabbasso di Paolino Dalla Porta che si ritaglia alcuni splendidi assolo senza, comunque, mai eccedere. Come accennavamo, i brani si muovono per lo più su ritmi lenti e meditativi eccezion fatta per "Città Part I/II/III/IV" che assume atmosfere vagamente "free" comunque non incidenti sull'omogeneità dell'album. G. G.
Mimmo CAFIERO OPEN JAZZ ORCHESTRA “Plays Sicilian Songs” Splasc(h) Records CDH 738.2 70’02’’. In Italia esiste un fiorire di orchestre didattiche che spesso raggiungono un alto livello, basti pensare alla milanese Civica Jazz Band o alle formazioni della romana Scuola Popolare di Musica di Testaccio. L’Open Jazz Orchestra, guidata dal batterista e compositore Mimmo Cafiero, appartiene a pieno titolo a questo movimento, essendo nata nel 1992 a Palermo presso la Scuola Musica Insieme e dimostrando una sua personalità nel rapporto tra allievi e maestri. Registrata dal vivo alla chiesa di S.Maria dello Spasimo (settembre 2000) la formazione conta sulla presenza ‘eccellente’ di Stefano D’Anna al sax soprano e di Salvatore Bonafede al pianoforte (due musicisti di grande valore già da tempo emersi dal nutrito vivaio siciliano), ben integrati nelle sezioni costituite da allievi ed ex allievi della struttura didattida diretta da Cafiero e da Loredana Spata. Svolgono un ruolo solistico la cantante Giorgia Meli, i trombettisti Aldo Oliveri e Leandro Lo Bianco, il trombonista Antonello Ceraolo, i chitarristi Claudio Terzo - Lino Costa - Riccardo Bertolino, il tastierista Marcello Bruno ed il percussionista Massimo Laguardia. L’auotre di gran parte del materiale è Mimmo Cafiero ed egli inserta talvolta nei propri brani elementi derivati dal folclore siciliano, come accade in “S’avissi statu riccu”, in “Terra d’amuri” o in “Averti” (nata dalla fantasia di D’Anna). Altrove si rielaborano direttamente materiali popolari quali “Si maritau Rosa” (che ha una straniante introduzione di chitarra elettrica) o si attinge alla canzone d’autore dalle evidenti radici folcloriche. E’ il caso de “’U Piscispada” di Domenico Modugno dove la voce di Giorgia Meli è arabescata dal soprano ispirato di Stefano D’Anna, prima che il brano adotti uno swing pienamente jazzistico. Il Cd, in definitiva, documenta l’attività di Cafiero in quanto compositore, didatta ed organizzatore culturale ed è dedicata al padre del musicista siciliano ed ad un compagno d’avventure sonore scomparso troppo presto,il sassofonista Maurizio Caldura. (Luigi Onori)
Rino VERNIZZI QUARTET “Baby boom” Splasc(h) Records CDH 737.2 59’04’’. Rarissimi i solisti di fagotto nella vicenda del jazz e tra i pochi c’è da annoverare Yusef Lateef; il ‘legno’ è difficile da piegare alla duttilità e alla velocità del solismo di scuola afroamericana ma Rino Vernizzi è all’altezza del difficile compito. Il leader di questo qualificato quartetto (con Mauro Zazzarini al sax soprano, Gianluca Renzi al contrabbasso e Giampaolo Ascolese alla batteria ed alle percussioni) proviene dal mondo della musica classica dove è stato primo fagotto in numerose orchestre ma ha avuto anche svariate esperienze nel campo della musica contemporanea, elettronica e nel jazz. Oltre che strumentista è compositore e tutti gli undici brani dell’album portano la sua firma. In essi è, in effetti, evidente la doppia matrice di Vernizzi seppur in un generale contesto jazzistico, dinamico e raffinato, che sfrutta con sapienza le voci dominanti del fagotto e del sax soprano. Si notano temi a riff distesi su tempo veloce (“Firmato Diaz”), melodie intessute a tempo più lento (“Baby Boom”), pezzi decisamente avanguardistici dalla complessa linea tematica (“Nigher” che ha delle asprezze che richiama Roscoe Mitchell ed annovera uno dei migliori solo di fagotto dell’intero Cd). Le esperienze vissute in ambito contemporaneo emergono piuttosto distintamente in “Meascikukkè”, brano dal sapore aleatorio dove Ascolese (anch’egli musicista dai molteplici campi d’azione) ha modo di farsi valore nell’inconsueto lavorìo con le spazzole. L’originalità, quindi, non si limita all’inedita presenza del fagotto di Rino Vernizzi ma investe anche le strutture sonore e le dinamiche interne al quartetto (“Cartoon”). (Luigi Onori)
Alvaro Is ROJAS - " The art of living " - Splasc(H) CDH 814.2 - 60'59" La Splasc(H), solitamente attenta alla musica italiana, da un pò di tempo porta le sue antenne anche al di fuori dei confini nazionali con proposte sempre molto ben vagliate. E' il caso di questo "Art of living" del pianista spagnolo, ma residente in Svezia, Alvaro Is Rojas. Alvaro affronta una prova, quella del piano-solo, che costituisce un vero e proprio banco di prova per qualsivoglia pianista. E ne esce sicuramente vittorioso evidenziando tutta una serie di caratteristiche che ne fanno davvero un eccellente musicista: innanzitutto il totale controllo della forma. Pur essendo praticamente padrone dell'intera scena, Rojas non esagera mai quasi centellinando le sue note; si ascoltino ad esempio i primi due brani del CD, " The art of living " una sua composizione che da il titolo all'intero album e "Who ever you are, I love you" di Bacharach in cui fa della rarefazione l'elemento predominante di un pianismo sicuramente personale. Più deciso il tocco in "Evidence" di Thelonious Monk a dimostrazione di un'ampia e approfondita conoscenza della letteratura pianistica jazz. Con "I get along without you" si ritorna ad atmosfere più intimiste che a nostro avviso meglio si attagliano alla poetica di Alvaro come dimostra anche l' altra sua composizione contenuta nel CD "With you at 'Sun-Rice' " . Ma , a conferma di una eccellente maturità stilistica, preziosa è l'interpretazione dell'ellingtoniano "In a sentimental mood" in cui Alvaro Is Rojas riesce a far risaltare la bellezza melodica del brano esaltando al tempo stesso la cantabilità del pianoforte. Insomma un disco davvero eccellente da gustare dalla prima all'ultima nota.
Tiziano TONONI & The Society of Freely Sincopated organic pulses - "We did it, We did it! (Rahsaan & the None)" -Splasc(h) Records World series CDH 811/812/813 Total time 235'48". Un acuto suono di sirena squarcia le note di Amazing Grace e nel libero, policromo, polifonico fluire della melodia spiritual ci mozza il fiato. Quella sirena evoca immediatamente, e con grande forza, la vibrante materia sonora che Roland Kirk sapeva produrre con i suoi strumenti, spesso in contemporanea e a più livelli. Flauto, sax tenore, manzello, stritch, clarinetto, una tromba con l'imboccatura ad ancia, flauti a naso, corno inglese, fischietti, sirene… La sirena di Amazing Grace rappresenta una metafora assoluta del Rahsaan polistrumentista, uomo-suono, uomo-orchestra, jazzista visionario, alfiere ora gioioso ora dolente comunque indomito e militante della black music. Il brano tradizionale, dopo il prologo free di De-Tuning n.1, ci porta subito al cuore del vasto progetto musicale e discografico di Tiziano Tononi, offrendoci con vivida immediatezza alcune chiavi di lettura. La chitarra elettrica distorta di Roberto Cecchetto, il sax tenore di Daniele Cavallanti e tutto il collettivo riprendono il tema gospel conservandone il nucleo espressivo ma trasfigurandolo e proiettandolo in una versione del tutto diversa, in una dimensione acida ed hendrixiana. Il chitarrista evocato qui tornerà nella VI e conclusiva parte accanto a Stevie Wonder e a Bob Marley, in una Ode to Black Music suggello di un lungo viaggio nella personalità di Kirk e nella sua articolata ed onnivora visione della musica nera. In Amazing Grace si evidenziano subito il legame profondo che il polistrumentista aveva con la tradizione musicale black (era capace di suonare assoli in qualsiasi stile) ma anche la sua visionaria capacità di agire sul presente sonoro, di percepirne ed anticiparne gli umori senza preclusioni stilistiche. We Did It, We Did It! (Rahsaan & The None) è il terzo progetto del batterista/compositore dedicato a musicisti e Kirk viene dopo John Coltrane e Don Cherry, costituendo una triade eccellente, una sorta di sacra trimurti. L'operazione è in sé stessa importante perché, di fatto, dopo la morte del polistrumentista nel 1977 la sua fama e i suoi brani hanno conosciuto un desolante oblio, forse dovuto all'impossibilità di definire la musica di Kirk che è sempre sfuggita alle categorie che governano i meccanismi di promozione. In realtà i motivi di una notorietà controversa anche in vita del jazzman di Columbus sono molteplici, lo rendevano e lo rendono personaggio scomodo, indomabile, fuori dal coro, un artista che colpisce l'emotività degli ascoltatori (e dei critici…) ma li pone bruscamente di fronte a domande brucianti, li costringe a schierarsi. Il fatto è che Kirk ha sempre rivendicato e praticato una musica classica nera che comprendeva tutti i generi della black music; ha usato spesso l'arma dell'ironia e della dissacrazione; è stato un fiero quanto imprevedibile e antidogmatico combattente per la libertà (fondò negli anni Settanta il Jazz and People's Movement); ha creato una sintassi sonora assolutamente visionaria (onirica, dato che il sogno ha sempre avuto una notevole importanza nella sua vita e da un sogno ha tratto ispirazione per suonare più strumenti in contemporanea). Agendo sulla materia sonora in modo del tutto eversivo, con uso di disparati attrezzi sonori, Kirk ha mandato a rotoli la sacralità del jazzista classico e pur essendo avanguardistico ha sempre esaltato il legame organico con la tradizione, con il senso del blues ed il senso del ritmo. Rashaan, in poche parole, è stato dimenticato perché sfugge agli stereotipi santificatori del genio e del jazzista maledetto quanto incarna alcuni tratti qualificanti della cultura afroamericana che sono destabilizzanti per quella bianco-occidentale, essendo al tempo stesso un fossile sonoro vivente ed un rivoluzionario musicale tradizionale (associabile, per certi versi, ad Albert Ayler), insofferente - peraltro - ai media e alla critica musicale. Per molti fu sempre e solo un uomo dai mille trucchi, uno showman, un fenomeno da baraccone, un cieco poco sano di mente: contro chi la pensava così Kirk si è battuto, con ironia al vetriolo, per tutta la vita. Oggi, dopo quasi un quarto di secolo, Tononi con la sua Society of Freely Syncopated Organic Pulse torna a far vibrare con forza la musica di Rahsaan e lo fa servendosi di una macrostruttura narrativa, di una vasta architettura, di un polittico sonoro amplio che al suo interno ha montaggi che ricordano tecniche cinematografiche e, a volte, il dj scratching. E' una scelta, quella del compositore-batterista, che tende a dilatare come su uno schermo panoramico ciò che possiamo ritrovare in Roland Kirk in una manciata di minuti, in un suo singolo pezzo o, addirittura, in un frammento. Una scelta per certi versi enfatica, a tratti epica, comunque impegnativa e coraggiosa sul piano progettuale e compositivo. Le sei parti - (Rah)NDOM THOUGHTS; (Rah)THER BLACK & BLUE; AR(rah)IVING SOON; (Rah)'N & ROLL; (Rah)ZZLE - DAZZLE; (Rah)MBLE IN THE JUNGLE - illuminano ciascuna un versante della poetica kirkiana, attraverso un montaggio di suoi brani, di pezzi originali di Tononi e di composizioni di altri jazzisti. In una dimensione che è sempre collettiva e corale, una parte può, ad esempio, lumeggiare la dimensione elettrica di Kirk riproponendo Blacknuss ed evocando Miles Davis, condurre ad una transizione che esalta il versante percussivo (Olù-Batà) e per mezzo di Voluntereed Slavery ci porta ai Mingus e Shepp militanti, difensori delle libertà calpestate nella prigione di Attica. Associazioni sonore ma anche ideologiche creano così dei percorsi, portando su un piano progettuale ed esplicito ciò che in Kirk era spesso presente implicitamente nel sovrapporsi dei suoi livelli di suono, nella caleidoscopica dimensione della sua musica. Sono ben 19 i brani kirkiani riproposti e riarrangiati (da temi conosciuti come The Inflated Tear sino a composizioni meno note come No Tonic Press), selezionati nell'ampia e variegata produzione del musicista di Columbus. Già un'operazione del genere sarebbe stata lodevole ma Tononi ha preferito costruire una forma-suite utilizzando 18 suoi brani ed una sorta di storia del jazz e della musica nera in sedicesimo. Ogni parte comprende, infatti, una rilettura di pezzi legati, in modo diretto o indiretto, alla figura di Kirk e questo repertorio nel repertorio allinea Duke Ellington, Fats Waller, Sidney Bechet, Charles Mingus, Archie Shepp, Thelonious Monk, John Coltrane, Stevie Wonder, Jimi Hendrix e Bob Marley. In questa impresa che ha del titanico e che racchiude vari episodi di grande spessore artistico (penso, tra i molti, alla dilatata versione di The Black & Crazy Blues, alla rilettura di Petit Fleur dominata dal violino struggente di Renato Geremia, alla tononiana 15 Miles/Electric con un luminoso Herb Robertson alla tromba) si rivela fondamentale l'apporto di tutti i musicisti, un vasto collettivo di artisti italiani e stranieri. La ricostruzione a più voci dell'unica e proteiforme (cfr.) voce di Kirk vede in prima linea le ance di Daniele Cavallanti, Achille Succi, Riccardo Luppi (con la presenza in alcuni brani di Gianluigi Trovesi), il polistrumentismo kirkiano di Geremia, gli ottoni di Robertson, Beppe Caruso e Michel Godard, le tastiere di Alberto Tacchini, la preziosa chitarra di Cecchetto, i contrabbassi di Tito Mangialajo e Piero Leveratto, la recitazione di Roberta Parsi e, in particolare, di Victor Beard, le diavolerie elettroniche di Andrea Rainoldi. Del leader parlano direttamente il progetto, la musica, la connettiva e carismatica presenza presenza. Su tutti si staglia e giganteggia la figura di Rahsaan Roland Kirk, un neroamericano non vedente che ha saputo immaginare orizzonti sonori lontani, a tratti ancora irraggiungibili.
(From Starry Nights To Sunrise) Il batterista e leader Marrali è un musicista siciliano che negli anni Ottanta ha lavorato a lungo in Germania. Tornato in Italia, non ha dimenticato i jazzisti con cui ha collaborato all'estero e che fanno parte del suo quartetto. Punto di forza dell'organico è il pianista Thilo Wagner che ha un elegante stile strumentale prossimo a Red Garland ed Oscar Peterson. Il chitarrista Lorenzo Petrocca - solista che si ispira ad Herb Ellis - è altro elemento di spicco in quanto eccellente improvvisatore sia sui prediletti tempi veloci come in brani più lenti; completa il quartetto il contrabbassista Davide Petrocca. La dimensione del Cd è tipicamente 'mainstream', all'interno, quindi, di un linguaggio e di un repertorio ben noti e codificati, da "Sophisticated Lady" di Duke Ellington a "Whisper Not" di Benny Golson. La proposta sonora, sostenuta dallo 'swing' impeccabile di Calogero Marrali, offre sprazzi di interesse negli arrangiamenti degli standard ("Billie's Privave Bounce", una combinazione di due pezzi parkeriani) ed in qualche composizione originale soprattutto del leader. In definitiva "From starry nights to sunrise" è un album di 'modern jazz' di buona fattura ma senza elementi di novità.
(Les Oiseaux) Il fascino di quest'album promana da due fattori. La dimensione di vasta composizione ("Gli Artisti del Circo Suite") organizzata in tredici pannelli in cui gli echi sonori circensi (con il loro potere evocativo) e un riferimento palpabile alla musica esteuropea (e kletzmer) si avvertono con forza. Il secondo fattore riguarda gli impasti timbrici di un quartetto privo di strumenti armonici che ai due fiati (la tromba di Piergiorgio Miotto ed i clarinetti di Marco Tardito) assomma due ritmi (Saverio Miele, contrabbasso; Marco Puxeddu, batteria). Si tratta di giovani musicisti che, con coraggio, propongono musiche originali (Tardito e Miotto) trovando, peraltro, il plauso di 'maestri' (e didatti) del jazz italiano quali Franco D'Andrea e Claudio Fasoli. Tra la favola ed la visione, la ricostruzione onirica e l'evocazione cinematografica (il circo rimanda a Fellini ma non solo), il quartetto Oiseaux ci porta tra gli "Zingari" ed "I Cavalieri del Don", ci fa ballare "La Danza del Pollicevo" e assistere a "Le Nozze", dopo aver visitato "Gli Orologi di Praga" e "Il Porto di Danzica". Viaggio della fantasia, il loro, che merita di essere intrapreso.
(Les Illuminations) Due pianisti, una registrazione effettuata negli studi di Radio Koper a Capodistria, in Slovenia. La ricerca che perseguono Cojaniz e Pacorig è quella dell'illuminazione sonora, perseguita in otto pannelli (Royauté, Génie, Vagabonds, H, Après Le Déluge, Barbare, Conte, Matinée D'Ivresse) con brani di lunghezza variabile, frammenti e filamenti di un discorso che si snoda libero e imprevedibile, scandito dai titoli in francese, quasi aforismi poetici. Questa musica è esigente, nel senso che richiede un ascolto paziente e ripetuto; non si concede ad una primo approccio e, pur essendo in buona parte improvvisata, rimanda ad una palpabile complessità. Emerge dalle frequenti, musicalissime pause un pianismo volutamente scarno e scabro, a tratti ermetico, eppure ricco di evocazioni simboliste e surrealiste. Nell'incrocio delle due tastiere passano i 'clusters' di Cecil Taylor come la musica contemporanea europea, Shoemberg come Gershwin: ora bruciante e atonale, ora morbidamente coloristica, la musica di Cojaniz e Pacorig trae alimento dal Novecento al di qua e al di là dell'oceano Atlantico, proiettandosi verso il futuro senza nascondere l'angoscia esistenziale, in mezzo a barlumi di speranza.
(Mufloni) Eccellente quintetto, l'ennesima riprova che il jazz italiano ha un vivaio di talenti notevolissimo e che la creatività riesce ad emergere anche in condizioni strutturalmente ed istituzionalmente difficili. I "Mufloni" sono il trombettista David Boato, allievo di Enrico Rava, il saxtenorista Marcello Allulli, il pianista Glauco Venier, il contrabbassista Salvatore Majore ed il batterista/percussionista Roberto Dani. Oltre all'indiscutibile bravura individuale, è il gruppo ad emergere in ciascuno dei dieci brani, otto originali (Allulli e Boato) più un breve estratto pucciniano dominato dal piano ed un pezzo di Tom Waits ("In The Neighbourhood"). Jazz libero e sperimentale quello della formazione che, però, ingloba squarci melodici e corposi elementi della tradizione jazzistica, utilizzando forme riconoscibili arricchite dagli apporti solistici. "Vueltacarnero" trascolora da un nebbioso orizzonte etnico verso un sanguigno jazz sostenuto da un bordone; "Cocco Waltzer" scherza e ironizza con il tempo dispari e l'atmosfera da circo; "Sergey" ruota attorno alla tromba elettronicamente effettata di Boato, con parti d'assieme e aree libere; in "Sergey" magnifico è l'intreccio tra tromba e sax tenore, con lo scambio del tema e dell'improvvisazione. Si potrebbe continuare, trovando per ciascun brano elementi di novità ed interesse, che poggiano sul percussionismo atipico e coloristico di Roberto Dani, sull'uso della sordina in Boato, sulla pienezza del tenore di Allulli, sul pianismo inquieto e brillante di Venier, sulla pertinenza fantasiosa del contrabbasso di Majore. Album che merita, davvero, ascolti numerosi.
(L'Essenza) E' il secondo Cd edito dalla Splasc(h) che coniuga soggetto fotografico e musica. Dopo "The Swingin' Camera" - in cui le fotografie particolarissime di Stefano Galvani (vicine alla pittura astratta e materica) fornivano lo spunto alle improvvisazioni di vari artisti (da Sandro Satta a Tiziano Tononi) - "L'Essenza" nasce dalla collaborazione tra Enrico Cano (per le immagini, riprodotte nel libretto) e i jazzisti Ferdinando Faraò e Claudio Fasoli. Il sassofonista non è nuovo ad imprese del genere: ricordo un suo album ("Bodies") dedicato al "corpo" inteso biologicamente e la tematica dell'essenza dei quattro elementi-base (acqua, fuoco, aria e terra) ha già intrigato David Liebman che ha addirittura concepito - ed in parte realizzato - un intero album per ciascuno di questi elementi. A livello compositivo tre brani su quattro escono dalla fantasia del percussionista e polistrumentista Faraò che ha saputo servirsi dell'elettronica e dei campionamenti con mano felice. I rischi di una musica ad ambizione filosofica sono molti; qui si riesce, in ogni caso, ad evitare il descrittivismo e a centrare a livello di sonorità degli "archetipi" del nostro immaginare e percepire. Più debole "Waterways", di grande efficacia "Flames", anche per l'intervento alla chitarra elettrica di Roberto Cecchetto, scultoreo "Air" in cui l'autore Fasoli scolpisce il silenzio attraverso il suono, evocativo "Earth" con il largo prevalere di percussioni.
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